L’art. 135 comma 1,
della Carta Costituzionale del 1948, a cui fu data attuazione cinque anni dopo
con la legge costituzionale 1/1953, indica in 15 il numero dei giudici
costituzionali e ne attribuisce il diritto di nomina per un terzo al Presidente
della Repubblica, per un terzo al Parlamento e per un terzo alla suprema magistratura
ordinaria ed amministrativa.
Il requisito fondamentale,
richiesto per la elezione a giudice costituzionale, è quello di essere un
tecnico del diritto con elevata preparazione, per cui la scelta non può che restringersi
a magistrati, in servizio od a riposo, a professori universitari di diritto
costituzionale e ad avvocati che vantino una esperienza professionale di almeno
vent’anni.
Di certo né l’art.
135, né la legge 1/1953 prescrivono che i 5 giudici eleggibili dal Parlamento
debbano essere scelti tra parlamentari o rappresentanti dei partiti politici.
Il perché è talmente
semplice da apparire ovvio.
Infatti, il giudice
costituzionale per essere eletto dal Parlamento, in seduta comune, deve
ottenere il voto da due terzi dei componenti l’assemblea, o dai tre quinti dal
quarto scrutinio.
Perciò è evidente
che una così ampia convergenza la potrebbero ottenere solo candidati autorevoli,
di comprovata preparazione ed esperienza, ma soprattutto indipendenti proprio per
ottenere il gradimento sia della maggioranza che delle minoranze.
Purtroppo, però, a
rendere ingarbugliata l’elezione dei giudici costituzionali da parte del
Parlamento intervengono due tratti distintivi della cultura politica italiana.
Il primo è l’accaparramento,
da parte dei partiti, di ogni poltrona disponibile e, perciò, figuriamoci di
quelle di maggior prestigio.
Il secondo è il vezzo
dei politici, non appena se ne presenta l’occasione, di ricorrere all’inciucio
che fatalmente si traduce in “io do una
cosa a te e tu dai una cosa a me”.
Per effetto di
questo modus operandi della politica
nostrana, mentre la crisi azzanna gli italiani, da oltre dieci giorni i lavori
parlamentari sono paralizzati perché senatori e deputati non si mettono d’accordo
sui nomi dei due candidati da eleggere a giudici costituzionali.
Siamo così arrivati oramai
alla dodicesima fumata nera !
Dopo che Antonio
Catricalà ha fatto saggiamente un passo indietro, sottraendosi a questa carnevalata,
in campo sono rimasti Luciano Violante, deputato PD ed ex magistrato, e Donato
Bruno, senatore FI ed avvocato.
Candidati scelti palesemente
per la loro appartenenza ai partiti prima che per la loro fulgida competenza costituzionale.
Fatto sta che ci
sono volute ben dodici fumate nere prima che il Capo dello Stato si scuotesse e
finalmente indirizzasse un tosto richiamo alle Camere invitando i parlamentari
a smetterla con queste indecorose schermaglie di bottega.
Non appena diffuso
il comunicato del Quirinale, a Palazzo Chigi si sono riuniti in tutta fretta i
due co-presidenti del consiglio per valutare la situazione e decidere il da
farsi per superare questo stallo che somiglia sempre più ad una farsa.
Siccome l’Italia è baciata
dalla fortuna, il fato è stato così generoso da regalarci non uno bensì una accoppiata ben assortita di
presidenti del consiglio, Renzi e Berlusconi, il primo con il ruolo del braccio
ed il secondo con quello della mente.
Non c’è proprio
nulla di cui sorprendersi, infatti giorno dopo giorno ci tocca assistere a vicende che
sono solo consequenziali alla “tresca del
Nazareno”.
Non resta che attendere, perciò, il tredicesimo
voto per capire se il summit dei due co-presidenti sia servito a superare l’impasse
e ad eleggere finalmente i due giudici della Corte Costituzionale, magari tirando
fuori dal cilindro due nuovi candidati, ovviamente espressione di PD e FI, in sostituzione di Violante e Bruno.
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