martedì 14 aprile 2015

Occupazione, tra buon senso e creatività

Forse sarà perché non sono né un cattedratico, né un politico né un sindacalista, però a me uomo della strada che cerca di usare il buon senso non è chiaro come possa il “Jobs Act” creare nuovi posti di lavoro.
Così come non riesco a comprendere Susanna Camusso quando, commentando il bonus sbucato nel DEF, chiede al governo: “se c’è un tesoretto lo si investa per il lavoro”.
Dopo aver vissuto molti decenni in aziende non credo di dire una idiozia se affermo che c’è una correlazione, diretta e vincolante, tra portafoglio ordini e livelli occupazionali.
Correlazione di cui, invece, in Italia non ha mai tenuto conto la pubblica amministrazione i cui organici da sempre sono influenzati da ragioni che nulla hanno a che vedere con principi elementari, come costo per prodotto/servizio erogato e produttività, requisiti imprescindibili, invece, per la sopravvivenza della imprenditoria privata.
Può essere sufficiente dare una occhiata agli organici di regioni, province e comuni, e rapportarli al numero degli abitanti amministrati per valutare le dissennatezze.
Ebbene, in una economia stagnante, se non addirittura in regressione, come illudersi che il “Jobs Act” possa creare nuovi posti di lavoro, checché ne dicano Renzi e Poletti ?
I dati ISTAT dimostrano  che nei suoi primi tre mesi il “Jobs Act” ha consentito, di fatto, solo la trasformazione di contratti da “tempo determinato” a “tempo indeterminato”, soprattutto grazie ai sostanziosi sgravi fiscali previsti.
Per carità, meglio di niente se il “Jobs Act” servisse almeno a ridurre il numero dei lavoratori precari.
Personalmente, peraltro, non mi faccio illusioni sul rilancio della economia solo per effetto dell’intervento della BCE e del calo del prezzo del petrolio.
Sono convinto che le difficoltà del mercato interno si supereranno solo se crescerà l’occupazione.
È questo il vero nodo che dovrebbe indurre governo, sindacati, confederazioni imprenditoriali, purché sotterrino le loro ottusità ideologiche, a sedersi intorno ad un tavolo per ideare soluzioni innovative.
Nel mio piccolo, so per esperienza che si può se tutte le parti ci mettono un po’ di buona volontà.
Ad esempio, perché non trovare il modo per incentivare con sostanziosi sgravi fiscali le imprese con più di 50 dipendenti, che prevedano un ricorso continuativo ed esteso al lavoro straordinario, invogliandole a sostituire il monte ore straordinarie con contratti a termine ?
Mi si dirà: ma questo significherebbe incentivare il precariato.
Vero. Ma non sarebbe più dignitoso e appagante, per un individuo, lavorare e guadagnare un salario anche solo per uno, due o tre mesi, piuttosto che angosciarsi da disoccupato, sentendosi ogni giorno inutile a se stesso ed alla propria famiglia ?
Tra l’altro le imprese si gioverebbero anche del risparmio sulla maggiorazione di costo del lavoro straordinario.
Non solo, ma perché non mettere anche mano, ad esempio, all’orario di lavoro delle 40 ore settimanali ?
Come ? Proverò a ragionare in concreto con dei numeri ipotizzando il caso di una impresa con 100 dipendenti.
Al lordo dell’assenteismo oggi l’impresa può contare ogni settimana, su 4.000 ore lavorative.
Nel caso l’orario di lavoro si riducesse, per esempio, a 36 ore, l’impresa avrebbe necessità di integrare l’organico con 11 nuovi posti di lavoro per mantenere invariati i livelli produttivi e pareggiare le 400 ore venute meno per la riduzione dell’orario (NdR: cioè un incremento dell’organico dell’11%).
Di certo si leverebbero al cielo le urla del duo Camusso-Landini, preoccupati di preservare i livelli salariali di chi lavora, senza troppo affannarsi per le tribolazioni dei disoccupati.
Così come, d’altra parte, mugugnerebbero imprenditori e manager, infastiditi dal dover rivedere almeno in parte la organizzazione delle attività, i turni di lavoro, etc..   
Al duo Camusso-Landini potrei far presente che sarebbe sufficiente che lo Stato dirottasse verso la riduzione del cuneo fiscale i miliardi, dissipati in modo improduttivo nella cassa integrazione e nei sussidi di disoccupazione, per assicurare invariati i salari netti.
Solleciterei, invece, imprenditori e manager a valutare le opportunità migliorative del cambiamento, ricordando tra l’altro che sarebbero loro i primi a beneficiare di un mercato interno vivacizzato da una maggiore occupazione.
Potrei accennare ad altri modelli, ma fino a quando la conflittualità ideologica non lascerà il passo alla buona volontà delle parti ed alla risolutezza nel risolvere il problema sarebbe solo fiato sprecato.

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