venerdì 10 maggio 2013

C’era una volta il … Partito Democratico


Quando in febbraio gli elettori del centrosinistra hanno imbucate nelle urne le loro schede, tutto potevano immaginare ma non certo di ritrovarsi di nuovo nella 1a. Repubblica, con un governo babilonia a guida DC.
Lo sconcerto e l’indignazione che, da qualche settimana, stanno sconvolgendo il popolo del PD, i sondaggisti li misurano in percentuali di consensi e, per il centrosinistra, pur volendo essere ottimisti, si colgono solo segnali funesti.
D’altra parte, non solo il Capo dell’esecutivo, Enrico Letta, ma anche diversi ministri conservano l’impronta del loro essere nati politicamente democristiani.
Così com’è democristiana l’idea di governare il Paese con una forma di compromesso, che questa volta non ha nulla di storico ma con il quale, per puro calcolo opportunistico ci si è illusi di poter mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, l’etica e l’immoralità, il bianco ed il rosso.   
Ci vuole ben altro che gli esercizi spirituali, nell’Abazia di Spineto della Luce, per ottenere l’amalgama tra modi di pensare ma, soprattutto, tra interessi così diversi e antitetici tra loro.
Per questo, non solo gli elettori di centrosinistra, ma anche tutti gli italiani, saranno costretti ad incrociare le dita assistendo  agli esercizi di equilibrismo che, giorno dopo giorno, il governo dovrà fare per evitare di cadere senza rete, sempre che …
Già, sempre che, da un lato a Berlusconi non salti la mosca al naso per qualche nuova condanna o rinvio a giudizio, e dall’altro nel PD non avvenga l’inesorabile redde rationem che è in incubazione da troppo tempo.
Una resa dei conti ancora più inevitabile dopo che la delusione, per la quasi sconfitta alle elezioni politiche, ha di fatto reso più reale un “rompete le righe”.
Costituitosi nel 2007, con l’ambizioso progetto di fondere tra loro culture politiche e sociali molto diverse, il PD non solo non è riuscito nel suo intento, ma ha visto proliferare, al suo interno, un numero inconcepibile di correnti e correntine.
D’altra parte, a qualunque persona di buon senso sarebbe apparso ciclopico e chimerico il progetto di far convivere sotto lo stesso tetto politico culture, ideologie, esperienze e concezioni a volte, persino incompatibili.
Quale poteva essere il collante per tenere insieme cristiano-sociali e socialdemocratici, liberali ed ecologisti se non l’opportunistica supposizione che, poiché “l’unione fa la forza”, non c’era altra strada percorribile per arrivare alla conquista del governo del Paese?
La conferma si è avuta il giorno dopo le elezioni politiche quando, volatilizzatasi, in un botto, l’illusione, a lungo accarezzata, di poter diventare i padroni nella stanza dei bottoni, sono iniziate le baruffe con la disgregazione effettiva del partito.
Dalemiani, veltroniani, bersaniani, renziani, bindiani, lettiani, e chi più ne ha più ne metta, gli uni contro gli altri armati hanno iniziato, senza discrezione, a far emergere le contraddizioni insabbiate da anni.
Per questo, ha torto Bersani quando, con miopia ed intento auto assolutorio, vorrebbe far coincidere il momento disgregatore con la mancata elezione di Prodi alla Presidenza della Repubblica.
La disgregazione era già in atto, dal 26 febbraio, con la caccia alle responsabilità della vittoriosa sconfitta elettorale e con le censure alla penosa ricerca di un’intesa con il M5S.
Così come ha avuto torto, Bersani, a non riconoscere subito la sconfitta elettorale, illudendo se stesso, ed oltre otto milioni di elettori, che fosse ancora possibile un governo del cambiamento, noncurante dell’evidenza dei numeri al Senato.
Un inganno che, dopo la cocente delusione elettorale, ha indignata la base del partito, alla quale è stato anche rifilato l’amaro boccone di un governo con il nemico di sempre, Berlusconi.
E mentre i militanti esacerbati occupavano le sezioni del partito, a Roma l’apparato arrivava ad un passo dalla possibile scissione, rimontata solo grazie all’incarico di formare il governo, affidato ad Enrico Letta, e alla correlata aspettativa che ogni corrente potesse godere di qualche poltrona.
Ad avvenuta ripartizione delle poltrone, però, le acque non si sono calmate e le correnti restano sul piede di guerra.
È ipotizzabile, perciò, che, sabato 11 maggio, in occasione dell’assemblea potrebbe andare in scena una resa dei conti dall’epilogo imprevedibile, a meno che il terrore per un ritorno affrettato alle urne, dopo aver fatto cadere il governo, non consigli di accantonare, per il momento, le lotte intestine.
Certo è che, a meno di miracoli, il PD, così com’era stato ipotizzato dai membri del Comitato Promotore, nel 2007, non potrà più avere un futuro.
Forse, sotto la spinta dei nuovi protagonisti emergenti, il PD potrebbe trasformarsi in una federazione di partiti e movimenti, in grado di guardare anche a bacini di consenso fino ad oggi sfuggiti ad un partito troppo arroccato a difesa del suo vecchio apparato di potere.

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