Se non si trattasse del presidente del Consiglio in
carica, cioè di colui al quale sono affidati i destini del nostro Paese
verosimilmente fino al 2018, le esternazioni quotidiane di Matteo Renzi potrebbero
sembrare sketch da avanspettacolo.
L’effetto farsesco, però, svanisce subito non appena consideriamo
che il debito pubblico italiano ad aprile ha sfiorato il poco invidiabile
record di 2.200 miliardi, che la disoccupazione giovanile cresce senza freno, che
la povertà assoluta affligge oltre 6 milioni di nostri concittadini, che i
partner europei voltano le spalle al dramma umanitario dei flussi di migranti,
etc. etc.
Non induce neppure tranquillità e sorrisi la strisciante propensione
che Renzi ha per forme di un dispotismo che fa a pugni con settanta anni di faticosa
convivenza democratica.
Preoccupa, ad esempio, l’annientamento del ruolo che la
Carta Costituzionale attribuisce al Parlamento, perpetrato da Renzi, in questi
mesi, imponendo 38 voti di fiducia per impedire modifiche ai decreti del
governo.
Non meno inquietante è il rifiuto ostinato ad un confronto
non solo con i partiti di opposizione, ma addirittura con le stesse minoranze
interne del PD.
Oggi, a rendere più preoccupante lo scenario è quel Renzi
che, stizzito per la sconfitta del PD alle ultime elezioni regionali ed ai
ballottaggi per la elezione dei sindaci, dimostra la sua incapacità di fare
autocritica e non trova di meglio che scaricare le colpe del flop elettorale sulle
primarie organizzate dal PD che, secondo lui, avrebbero consentite le candidature
di soggetti non all'altezza.
Aldilà di ogni altra considerazione, c’è però qualcosa di
puerile nel suo modo di affrontare la realtà.
Infatti per mesi, in lungo ed in largo, si è pavoneggiato
di aver ottenuto LUI il 40,8% di consensi alle elezioni europee.
Oggi, invece, di fronte all’insuccesso delle
amministrative non riesce a fare altro che addossare tutta la colpa alla
inadeguatezza dei candidati scelti attraverso le primarie PD con il suo imprimatur.
Una polemica nei confronti dell’istituto delle primarie bizzarra
e paradossale.
Infatti, lo smemorato da Rignano sull’Arno non ricorda
che è solo grazie alle primarie che lui ha potuto diventare prima sindaco di
Firenze nel 2009 e poi, nel 2013, segretario del PD.
Cioè, senza le primarie Renzi oggi non maramaldeggerebbe
sul PD, né avrebbe potuto congiurare con Berlusconi per scalzare Enrico Letta
da Palazzo Chigi, né tantomeno sarebbe mai diventato presidente del Consiglio, e
quindi aver accesso nei consessi internazionali.
Per farla breve, senza le primarie organizzate dal PD, oggi
Matteo Renzi sarebbe un “Signor Nessuno”.
Il fatto è che, agli occhi di Renzi le primarie, pur con
i loro limiti, rappresentano ora un metodo esageratamente democratico perché
permettono ad iscritti e simpatizzanti del centrosinistra di scegliere i propri
candidati.
Il sistema primarie, infatti, mal si concilia con l’assioma
renziano di un “uomo solo al comando”
che vuole eleggere a suo piacimento vassalli e portaborse, giullari di corte e damigelle
d’onore.
Questo lo si era già intuito quando, nella nuova legge
elettorale l’Italicum, Renzi aveva imposti a viva forza i capilista bloccati
per garantire ai suoi cortigiani uno scranno sicuro nel futuro Parlamento.
Anche se lo scenario politico italiano non fa presagire
nulla di buono, per la sua precarietà, ed anche se oramai il 50% di elettori
nauseati rifiuta il contatto con le urne, mi auguro che, dopo il ventennio del
Duce da Predappio e dopo i quattro lustri del Principe di Arcore, all’Italia
non tocchi ora una lunga dominazione del ducetto da Rignano sull’Arno.
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