Non so perché ma ogni volta che mi capita
di vedere in TV Giuliano Poletti, non posso fare a meno di immaginarmelo con
indosso un consunto abito talare, circondato da anziani parrocchiani in una
sperduta chiesetta delle valli di Comacchio.
Invece, purtroppo per noi, lui è nientepopodimeno
che il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali dell’attuale governo.
Nulla di scandaloso, sennonché negli ultimi
tempi per non essere da meno del suo boss Renzi, l’indefesso battutista, anche
Poletti ha deciso di cimentarsi nel fare battute su temi sociali e del lavoro,
temi però che ignora o, quantomeno, conosce solo per sentito dire.
Basta scorrere il suo curriculum, infatti,
per apprendere che una volta conseguito il diploma di perito agrario il suo
percorso professionale si è concretizzato soltanto attraverso incarichi di
amministratore comunale e provinciale, fino a presiedere, per evidenti meriti
politici, la Legacoop di Emilia e Romagna.
Insomma non è fuori luogo affermare che la
poltrona di Ministro del Lavoro sia occupata oggi da un signore che non ha
lavorato neppure un’ora in una fabbrica o in un ufficio, e che non avendo mai
vissuto lo status di dipendente di una impresa, manifatturiera o del terziario,
ne ignora le problematiche.
Con queste premesse è facile comprendere
come mai il Ministro Poletti inciampi troppo spesso in divagazioni senza senso ed
inspiegabili.
Così nei giorni scorsi si è rivolto ai
giovani, universitari di oggi e di domani, suggerendo: “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere
97 a 21 anni. Così un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e
voleva arrivare”.
È chiaro, in primo luogo, che Poletti ignori
che, oltre alle cosiddette lauree brevi, ci siano corsi di laurea di durata maggiore
che prevedono anche anni di specializzazione per poter accedere alla
professione.
Non solo, ma come non sorridere alle parole
“dimostra che in tre anni ha bruciato
tutto e voleva arrivare”.
Poletti sembra essere all’oscuro che,
secondo ISTAT, il tasso di disoccupazione giovanile, riferito a giovani di età
compresa tra i 15 ed i 24 anni, superi il 44%.
Cioè, proprio la fascia di età in cui
rientrerebbero quei giovani che si sono laureati a 21 anni, con qualsiasi voto,
per “arrivare”.
Ma arrivare dove ?
Possibile che al Ministro del Lavoro sfugga
che i giovani ci sono e sono impazienti di lavorare ma è il lavoro che non c’è
?
Pur di sorprenderci con un’altra delle sue amenità
il battutista Poletti, dopo aver spronati i giovani con le sue perle di
saggezza, ha cambiato argomento ed ha affermato: “Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come riferimento
l’ora-lavoro”.
E qui la sua incompetenza, del mondo del
lavoro e delle variegate esigenze che lo attraversano, viene a galla in modo
macroscopico.
Probabilmente, ospite di qualche convegno,
Poletti, tra una dormitina e l’altra, deve aver captato che i convenuti stavano
parlando di una attività, a lui sconosciuta: il cosiddetto “telelavoro” che, in effetti, non può essere misurato con il
parametro “ora-lavoro”.
Il pacioso parroco di campagna che
intravedo in Poletti, prima di sparare cavolate si sarebbe umilmente informato
su cosa sia il “telelavoro”.
Invece no, lui è il Ministro del Lavoro e
perdindirindina perché non approfittarne per buttar lì un’altra corbelleria ?
Il guaio è che Poletti, così estraneo al mondo
delle imprese e del lavoro, ignora, ad esempio, che la “ora-lavoro” è indispensabile, prima di tutto, per organizzare le attività
di una fabbrica o di un supermarket.
Da ciò consegue (NdR: ma forse lui non lo
sa) che i lavoratori occupati prestano la loro
opera in funzione di una organizzazione che prevede turni di lavoro, orari di
apertura dei punti vendita, durate di accesso ai servizi, etc..
Diverso sarebbe stato se Poletti avesse
affermato che i contratti dovrebbero prevedere retribuzioni più articolate e
premianti per “ora-lavoro” in
funzione dei diversi comparti e delle loro tipicità.
Ma
tant’è, sarebbe troppo pretendere questo da un Ministro del Lavoro e delle
Politiche Sociali del governo Renzi.