Forse sarà perché non sono né un cattedratico, né un
politico né un sindacalista, però a me uomo della strada che cerca di usare il
buon senso non è chiaro come possa il “Jobs
Act” creare nuovi posti di lavoro.
Così come non riesco a comprendere Susanna Camusso quando,
commentando il bonus sbucato nel DEF, chiede al governo: “se c’è un tesoretto lo si investa per il lavoro”.
Dopo aver vissuto molti decenni in aziende non credo di dire
una idiozia se affermo che c’è una correlazione, diretta e vincolante, tra portafoglio
ordini e livelli occupazionali.
Correlazione di cui, invece, in Italia non ha mai tenuto
conto la pubblica amministrazione i cui organici da sempre sono influenzati da ragioni
che nulla hanno a che vedere con principi elementari, come costo per prodotto/servizio
erogato e produttività, requisiti imprescindibili, invece, per la sopravvivenza
della imprenditoria privata.
Può essere sufficiente dare una occhiata agli organici di
regioni, province e comuni, e rapportarli al numero degli abitanti amministrati
per valutare le dissennatezze.
Ebbene, in una economia stagnante, se non addirittura in
regressione, come illudersi che il “Jobs
Act” possa creare nuovi posti di lavoro, checché ne dicano Renzi e Poletti
?
I dati ISTAT dimostrano
che nei suoi primi tre mesi il “Jobs
Act” ha consentito, di fatto, solo la trasformazione di contratti da “tempo determinato” a “tempo indeterminato”, soprattutto grazie
ai sostanziosi sgravi fiscali previsti.
Per carità, meglio di niente se il “Jobs Act” servisse almeno a ridurre il numero dei lavoratori
precari.
Personalmente, peraltro, non mi faccio illusioni sul rilancio
della economia solo per effetto dell’intervento della BCE e del calo del prezzo
del petrolio.
Sono convinto che le difficoltà del mercato interno si supereranno
solo se crescerà l’occupazione.
È questo il vero nodo che dovrebbe indurre governo, sindacati, confederazioni imprenditoriali, purché sotterrino le loro ottusità ideologiche, a
sedersi intorno ad un tavolo per ideare soluzioni innovative.
Nel mio piccolo, so per esperienza che si può se tutte le
parti ci mettono un po’ di buona volontà.
Ad esempio, perché non trovare il modo per incentivare
con sostanziosi sgravi fiscali le imprese con più di 50 dipendenti, che prevedano
un ricorso continuativo ed esteso al lavoro straordinario, invogliandole a sostituire
il monte ore straordinarie con contratti a termine ?
Mi si dirà: ma questo significherebbe incentivare il
precariato.
Vero. Ma non sarebbe più dignitoso e appagante, per un
individuo, lavorare e guadagnare un salario anche solo per uno, due o tre mesi,
piuttosto che angosciarsi da disoccupato, sentendosi ogni giorno inutile a se
stesso ed alla propria famiglia ?
Tra l’altro le imprese si gioverebbero anche del
risparmio sulla maggiorazione di costo del lavoro straordinario.
Non solo, ma perché non mettere anche mano, ad esempio, all’orario
di lavoro delle 40 ore settimanali ?
Come ? Proverò a ragionare in concreto con dei numeri ipotizzando
il caso di una impresa con 100 dipendenti.
Al lordo dell’assenteismo oggi l’impresa può contare ogni
settimana, su 4.000 ore lavorative.
Nel caso l’orario di lavoro si riducesse, per esempio, a
36 ore, l’impresa avrebbe necessità di integrare l’organico con 11 nuovi posti
di lavoro per mantenere invariati i livelli produttivi e pareggiare le 400 ore venute
meno per la riduzione dell’orario (NdR: cioè un incremento dell’organico dell’11%).
Di certo si leverebbero al cielo le urla del duo
Camusso-Landini, preoccupati di preservare i livelli salariali di chi lavora, senza
troppo affannarsi per le tribolazioni dei disoccupati.
Così come, d’altra parte, mugugnerebbero imprenditori e
manager, infastiditi dal dover rivedere almeno in parte la organizzazione delle
attività, i turni di lavoro, etc..
Al duo Camusso-Landini potrei far presente che sarebbe
sufficiente che lo Stato dirottasse verso la riduzione del cuneo fiscale i
miliardi, dissipati in modo improduttivo nella cassa integrazione e nei sussidi
di disoccupazione, per assicurare invariati i salari netti.
Solleciterei, invece, imprenditori e manager a valutare
le opportunità migliorative del cambiamento, ricordando tra l’altro che sarebbero
loro i primi a beneficiare di un mercato interno vivacizzato da una maggiore
occupazione.
Potrei accennare ad altri modelli, ma fino a
quando la conflittualità ideologica non lascerà il passo alla buona volontà
delle parti ed alla risolutezza nel risolvere il problema sarebbe solo fiato
sprecato.
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