Nel 2010 la forza lavoro attiva, presente nel nostro Paese, era occupata per il:
- 3,9% nell'agricoltura (a fronte del 6% nel 1995)
- 28,5% nell'industria (a fronte del 30,9% nel 1995)
- 67,6% nei servizi (a fronte del 63,1% nel 1995).
Come in tutti i paesi industrializzati il trend evidenzia il crescente spostamento delle opportunità occupazionali dal settore manifatturiero verso il più articolato comparto dei servizi.
Se teniamo presente, inoltre, che negli anni '70 ben oltre il 50% degli occupati era impiegato nell'industria, ci rendiamo conto di quanto sia stata strutturale, negli ultimi 40 anni, la trasformazione del mercato del lavoro.
Un cambiamento dovuto sia alla crescente diffusione dei processi di automazione industriale, sia al decentramento delle produzioni ad alta intensità di manodopera (labour intensive) in paesi dove il costo del lavoro è inferiore.
Sarebbe, perciò, assolutamente anacronistico anche solo pensare di opporsi alle nuove condizioni introdotte da un cambiamento così sostanziale e radicale.
Per comprendere quanto tutto questo possa aver cambiate le condizioni nel mondo del lavoro, è sufficiente soffermarsi a riflettere, per qualche istante, su una semplice notazione: la vita di una impresa manifatturiera, per la rilevanza stessa degli investimenti in impianti produttivi, è inevitabilmente più stabile e di più lunga durata della maggior parte delle imprese di servizi che richiedono un minor impegno di capitali.
L'ovvio risultato è che, nelle industrie, anche il posto di lavoro può essere caratterizzato da una maggiore stabilità e durata.
Nelle attività di servizio, invece, l'occupazione presenta una più elevata caratterizzazione di discontinuità ed instabilità.
Questa è la nuova realtà con la quale, ad ogni buon conto, politica, sindacati e lavoratori devono confrontarsi.
Non comprendere o non accettare i cambiamenti intervenuti ostinandosi a contrastarli sarebbe donchisciottesco.
Una ricerca condotta dalla "Fondazione Leone Moressa" evidenzia, ad esempio, che ad adattarsi meglio e più rapidamente a queste nuove contingenze sarebbero i lavoratori immigrati.
La stessa ricerca rileva una serie di professioni nelle quali è possibile riscontrare la presenza più elevata di lavoratori stranieri: carpentieri, muratori, ponteggiatori, saldatori, lattonieri, montatori, manovali, autisti, camionisti, cuochi, camerieri, baristi, collaboratori domestici, operatori ecologici, stagionali in agricoltura, etc..
Tutte attività del composito comparto dei servizi che, per le loro caratteristiche di discontinuità e provvisorietà richiedono al lavoratore disponibilità e capacità di adattamento a condizioni di flessibilità e mobilità.
Posti di lavoro, questi, lasciati via via scoperti ed ai quali il lavoratore straniero si è adattato.
Si deve prendere atto che, tra il 2007 ed il 2010, sul totale della forza lavoro attiva in Italia, la componente straniera è passata dal 6,5% al 9,1%, forse semplicemente subentrando in tipologie di lavori non più graditi ai lavoratori italiani.
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