Si è presentato sul palcoscenico della politica italiana
come “gran rottamatore” di quei politici che da troppi anni occupavano con i
loro deretani gli scranni del Parlamento e le poltrone nelle stanze dei bottoni.
Si è proclamato portatore di cambiamenti radicali che
avrebbero cancellati dagli usi e costumi della politica italiana gli inciuci,
le camarille, i do ut des, etc.
Però, non appena agguantata la poltrona di segretario del
PD, la sua prima mossa è stata quella di riesumare dall’ineluttabile viale del
tramonto un Berlusconi già pregiudicato, per legarsi a lui con la “congiura del Nazareno”, uno dei più impenetrabili
ed oscuri maneggi della storia repubblicana.
Solo i prossimi mesi potranno chiarire se, gettato alle
ortiche l’ardore per la rottamazione ed il cambiamento, Matteo Renzi, di fatto, con la “congiura del Nazareno” si sia
accordato o piuttosto sottomesso a Berlusconi.
Alla luce di quanto è accaduto in questi primi mesi mi sembra
evidente che si profili una malcelata forma di sudditanza.
Comunque, ad ulteriore prova che Renzi abbia poche idee ma
molto confuse sull’autentico significato del concetto di “cambiamento”, da
alcuni giorni ha ripescato dalla archeologia delle politiche industriali una idea molto originale ed innovativa: la “nazionalizzazione”.
Il proposito, sbandierato ai quattro venti da Renzi, con
l’evidente scopo di rabbonire i contrasti con i duri del sindacato, Camusso e
Landini, sarebbe quello di nazionalizzare l’ILVA, una azienda siderurgica
oramai collassata.
Ora, a prescindere da ogni considerazione sui vincoli
normativi italiani ed europei che potrebbero impedire la nazionalizzazione, è
evidente che al Presidente del Consiglio sfuggano i disastri provocati all’economia
nazionale dalle aziende di Stato, che hanno dissipati miliardi e miliardi di
denaro pubblico, ovviamente a spese dei contribuenti italiani.
Basterebbe che Renzi conoscesse la infausta storia dell’ILVA,
già ITALSIDER, per comprendere che la sua nazionalizzazione comporterebbe un
bagno di sangue per le finanze pubbliche.
Non solo, ma aldilà dello specifico caso ILVA, sarebbe
sufficiente che Renzi ascoltasse le esperienze di manager che hanno operato in
aziende pubbliche per rendersi conto dei rischi di ingestibilità
economica e finanziaria che sarebbero imposte dalle interferenze politiche e
sindacali.
Renzi è consapevole che una nazionalizzazione significherebbe
spalancare le porte alla sfrontatezza di politici locali e nazionali che
imporrebbero assunzioni di parenti, compari, amici, amici degli amici e via
discorrendo, con lo scopo di crearsi un proprio bacino elettorale, ed
infischiandosene di produttività e conti economici ?
Un caso di vita vissuta potrà essere utile per inquadrare
i possibili rischi.
Anni fa, per soddisfare le sollecitazioni di un influente
politico pugliese, una industria aeronautica pubblica mise in piedi un centro
di ricerca e sviluppo, a centinaia di chilometri dalla sede centrale, per dare
lavoro ad alcune centinaia di neo-laureati, elettori potenziali del politico.
L’iniziativa, come aveva previsto il management operativo
in contrasto con il vertice aziendale messo lì da quell’influente politico, si
rivelò così disastrosa da dare il via alla crisi economica e finanziaria dell’azienda.
È probabile che il politico sia riuscito ad aumentare i
suoi voti, ma di certo molti lavoratori persero il posto a seguito di un inevitabile
processo di ristrutturazione.
Matteo Renzi è consapevole dei molti rischi che comporta una
nazionalizzazione ?
Ed
infine, dopo l’ILVA quante altre aziende decotte il nostro Presidente del
Consiglio penserebbe di nazionalizzare ?
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