mercoledì 3 dicembre 2014

Dalla rottamazione alla archeologia

Si è presentato sul palcoscenico della politica italiana come “gran rottamatore” di quei politici che da troppi anni occupavano con i loro deretani gli scranni del Parlamento e le poltrone nelle stanze dei bottoni.
Si è proclamato portatore di cambiamenti radicali che avrebbero cancellati dagli usi e costumi della politica italiana gli inciuci, le camarille, i do ut des, etc.
Però, non appena agguantata la poltrona di segretario del PD, la sua prima mossa è stata quella di riesumare dall’ineluttabile viale del tramonto un Berlusconi già pregiudicato, per legarsi a lui con la “congiura del Nazareno”, uno dei più impenetrabili ed oscuri maneggi della storia repubblicana.
Solo i prossimi mesi potranno chiarire se, gettato alle ortiche l’ardore per la rottamazione ed il cambiamento, Matteo Renzi, di fatto, con la “congiura del Nazareno” si sia accordato o piuttosto sottomesso a Berlusconi.
Alla luce di quanto è accaduto in questi primi mesi mi sembra evidente che si profili una malcelata forma di sudditanza.
Comunque, ad ulteriore prova che Renzi abbia poche idee ma molto confuse sull’autentico significato del concetto di “cambiamento”, da alcuni giorni ha ripescato dalla archeologia delle politiche industriali una idea molto originale ed innovativa: la “nazionalizzazione”.
Il proposito, sbandierato ai quattro venti da Renzi, con l’evidente scopo di rabbonire i contrasti con i duri del sindacato, Camusso e Landini, sarebbe quello di nazionalizzare l’ILVA, una azienda siderurgica oramai collassata.
Ora, a prescindere da ogni considerazione sui vincoli normativi italiani ed europei che potrebbero impedire la nazionalizzazione, è evidente che al Presidente del Consiglio sfuggano i disastri provocati all’economia nazionale dalle aziende di Stato, che hanno dissipati miliardi e miliardi di denaro pubblico, ovviamente a spese dei contribuenti italiani.
Basterebbe che Renzi conoscesse la infausta storia dell’ILVA, già ITALSIDER, per comprendere che la sua nazionalizzazione comporterebbe un bagno di sangue per le finanze pubbliche.
Non solo, ma aldilà dello specifico caso ILVA, sarebbe sufficiente che Renzi ascoltasse le esperienze di manager che hanno operato in aziende pubbliche per rendersi conto dei rischi di ingestibilità economica e finanziaria che sarebbero imposte dalle interferenze politiche e sindacali.
Renzi è consapevole che una nazionalizzazione significherebbe spalancare le porte alla sfrontatezza di politici locali e nazionali che imporrebbero assunzioni di parenti, compari, amici, amici degli amici e via discorrendo, con lo scopo di crearsi un proprio bacino elettorale, ed infischiandosene di produttività e conti economici ?
Un caso di vita vissuta potrà essere utile per inquadrare i possibili rischi.
Anni fa, per soddisfare le sollecitazioni di un influente politico pugliese, una industria aeronautica pubblica mise in piedi un centro di ricerca e sviluppo, a centinaia di chilometri dalla sede centrale, per dare lavoro ad alcune centinaia di neo-laureati, elettori potenziali del politico.
L’iniziativa, come aveva previsto il management operativo in contrasto con il vertice aziendale messo lì da quell’influente politico, si rivelò così disastrosa da dare il via alla crisi economica e finanziaria dell’azienda.
È probabile che il politico sia riuscito ad aumentare i suoi voti, ma di certo molti lavoratori persero il posto a seguito di un inevitabile processo di ristrutturazione.
Matteo Renzi è consapevole dei molti rischi che comporta una nazionalizzazione ?
Ed infine, dopo l’ILVA quante altre aziende decotte il nostro Presidente del Consiglio penserebbe di nazionalizzare ? 

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