Mi
viene l’orticaria al solo pensiero che, in questi giorni, a disquisire di
lavoro e della sua pseudo riforma siano Matteo Renzi, Stefano Fassina, Cesare
Damiano e Pietro Ichino.
Quattro
personaggi che hanno in comune alcune peculiarità.
La
prima è di essere diventati, non appena usciti dallo svezzamento, mestieranti della
politica o del sindacato, assimilandone limiti, ottusità, pregiudizi, contraddizioni, tare.
La seconda
è di non aver mai lavorato, in vita loro, da operaio, impiegato o manager in
una qualsiasi impresa assillata dall’esigenza di dover essere competitiva per
poter sopravvivere.
La terza
è di non aver mai avuta esperienza diretta del cosa significhi gestire decine,
centinaia o migliaia di risorse umane.
La
quarta è la tracotanza con cui, un contro l’altro armato, pretendono di imporre
i loro assiomi a chi le problematiche del lavoro le vive tutti i giorni sulla
propria pelle.
La
quinta, senza dubbio la più negativa, è quella di ignorare che la risorsa umana
costituisca il fattore economico più importante, dal quale dipende il successo
od il tracollo di ogni impresa.
Inevitabile
conseguenza del loro pressappochismo è che da giorni i quattro personaggi si
battibeccano confinati nel ristretto spazio dell’Art. 18, del licenziamento con
o senza reintegro, del contratto a tutele crescenti, e poco più.
Non una
sola parola, non la più piccola riflessione, invece, sul perché e sul come il
posto di lavoro, e le norme che lo regolano, vadano rapportati, ad esempio, alla
dimensione ed al comparto in cui opera l’impresa, alla professionalità, al
merito, alle mansioni usuranti, alla produttività, etc. etc.
Ho
molti dubbi che il “jobs act” sia una strenna natalizia fatta agli
imprenditori, come faziosamente sostengono Camusso e Landini.
Credo
piuttosto che incompetenza e superficialità, della politica tutta, stiano dando
vita, ancora una volta, a decisioni raffazzonate che, alla prova dei fatti,
solleveranno le reazioni indignate degli uni e degli altri.
Uno
dei più aspri pomi della discordia, ad esempio, ha come punto nodale il
contratto a tempo indeterminato che, nel caso delle garanzie crescenti, non
garantirebbe al lavoratore un posto di lavoro a vita.
Decenni
di esperienze sul campo mi hanno insegnato che, a prescindere dalla tipologia
del contratto, la risorsa umana, se soddisfatta della mansione assegnatagli, cerca
sempre di dimostrare le sue capacità e la sua attitudine, dedicandosi al lavoro
con impegno e serietà.
Ora, perché
mai l’azienda dovrebbe gettare alle ortiche l’investimento di tempo e denaro
fatto per avviare ai suoi compiti un neo assunto, valido ed affidabile ?
Solo
perché il contratto darebbe la possibilità di licenziarlo?
Mi
sembrerebbe un folle ed ingiustificabile autolesionismo!
Per
contro, se la risorsa neoassunta si dimostrasse incapace, inadeguata, inaffidabile,
perché mai lo Stato dovrebbe imporre, all’azienda, l’onere di sobbarcarsi il
suo mantenimento in organico, impedendo così ad altra probabile risorsa
disoccupata, capace e seria, di occupare quel posto ?
Mi
sono sempre domandato quanti posti di lavoro si renderebbero disponibili nelle
imprese private, ma più ancora nella pubblica amministrazione, se si adottassero
finalmente, per tutti, parametri basati sul merito e sulle capacità.
Già,
ma i quattro personaggi citati, non so se per incompetenza o per ignoranza, nelle
loro diatribe quotidiane continuano a non affrontare né questa né molte altre componenti
fondamentali del rapporto di lavoro.
Il
nostro è un paese in cui, ciclicamente, si organizzano solenni convegni e saccenti
tavole rotonde per dibattere di PIL, di competitività, di ripresa e di sviluppo,
di costo del lavoro.
Sarebbe
ora, invece, che qualcuno incominciasse a riflettere seriamente su cosa fare perché
il “capitale umano”, impiegato a tutti i
livelli del sistema, sia coinvolto ed invogliato ad impegnarsi per tirar fuori
dalle secche la nostra languente economia.
Farneticazione
? Delirio ? Utopia ?
Forse ! Continuo a credere, però, che questa sia
l’unica strada percorribile per dare fiato al nostro Paese.
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