L’antico adagio popolare “il tempo
è galantuomo" trova ancora conferma quando ci aiuta a conoscere, dopo quattro
anni, una verità che i nostri governanti avevano sottaciuta.
Grazie, infatti, alla inattesa sentenza della Consulta appare sempre più
evidente che a salvare il Paese dall’orlo del precipizio, sul
quale lo aveva trascinato il malgoverno berlusconiano, siano stati, verosimilmente, i sacrifici
imposti a sei milioni di pensionati dal duo Monti-Fornero.
A riconoscerlo sono le parole pronunciate dal ministro Padoan, il quale ha
dovuto ammettere che se si ripristinasse l’indicizzazione delle pensioni, derubata
da Monti e Fornero a sei milioni di italiani, “l’Italia si troverebbe a violare il vincolo del 3%, l’aggiustamento
strutturale e la regola del debito”.
Vale a dire, in questi anni la stampella dei conti pubblici sono stati soprattutto
i miliardi (NdR: 10 ? 15 ? 19?) defraudati ai sei milioni di pensionati.
Se non altro siamo riusciti a sapere, finalmente, a chi dire grazie per aver
evitata all’Italia la fine della Grecia.
Solo così mi spiego perché, per colpa della sentenza della Consulta, da
alcuni giorni Padoan appaia in balia di una depressione contabile, mentre l’ex
ministro Fornero, indispettita, scagli i suoi strali velenosi contro la Corte
Costituzionale.
Non solo, ma mi è chiaro anche perché l’UE dia segni di fibrillazione al
punto da pretendere le rassicurazioni del governo italiano, avvertendolo che
monitorerà i conti pubblici per verificare quanto peserà sulle finanze
pubbliche la sentenza sulla indicizzazione delle pensioni.
Certo è che ancora una volta una amara realtà conferma che viviamo in un
paese incredibile, vulnerabile, alla mercé di governi incapaci, perfino, di valutare l’impatto che
le loro scelte insensate potrebbero avere sul futuro della collettività.
Ad esempio, visto che parliamo di pensioni, perché non ricordare anche ciò
che accadde poco più di quaranta anni fa.
Era il 1973, anno che molti di noi ricordano per l’austerity, la crisi petrolifera, il serpente monetario, il doppio
mercato dei cambi, la fluttuazione della lira, l’inflazione galoppante, il
divieto di circolazione dei mezzi privati nei giorni festivi, i programmi TV
che terminavano alle 22:45 per contenere i consumi energetici, etc.
Nel 1973 al Quirinale c’era Giovanni Leone, mentre a Palazzo Chigi Mariano
Rumor, nel mese di luglio, era subentrato a Giulio Andreotti.
In un periodo pur così cupo e greve il governo Rumor, tra Natale e
Capodanno, emanò un DPR consegnato alla storia come il “decreto delle baby pensioni”.
Con quel decreto il governo concedeva ai dipendenti della pubblica
amministrazione di andare in pensione non appena avessero raggiunti soli 14
anni, 6 mesi ed un giorno di lavoro, per le donne, e 20 anni per gli uomini.
Fu un regalo straordinario ai dipendenti pubblici, fatto casualmente (???) alla vigilia delle elezioni amministrative.
Fatto sta che, per anni, centinaia di migliaia di trentenni e
quarantenni lasciarono il loro posto di lavoro, si misero in pensione,
avviarono una loro attività o si inserirono nel mercato del lavoro in nero.
La Democrazia Cristiana ottenne il pieno di voti, però, da quel lontano
1973, i baby pensionati gravano ogni
anno sulle finanze pubbliche per oltre 8 miliardi di euro (NdR:
cioè lo 0,4% del PIL), ciò nonostante nel 1992 si sia corso ai
ripari con una legge che cancellò quella norma scriteriata.
Perché mai i sindacati, molto forti in quegli anni e sempre pronti a
scendere in piazza, non si opposero a quel decreto che avrebbe inciso molto sui
conti pubblici sottraendo risorse al sistema pensionistico e, quindi, a tutti i
pensionati ?
Forse, con una opposizione risoluta, avrebbero potuto evitare quello
scempio che ancora oggi pesa su tutti noi.
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