Svecchiare la cultura del Sindacato
Le dichiarazioni rilasciate dai rappresentatnti dei principali sindacati, prima e dopo l'apertura del tavolo con il Governo sulla riforma del lavoro, sembrano confermare l'inadeguata percezione che il Sindacato ha di come e di quanto sia profondamente cambiato il mondo del lavoro.
La memoria ritorna a quel 14 ottobre 1980, quando per le vie di Torino 40.000 "colletti bianchi" sfilarono in silenzio per protestare contro la dura vertenza sindacale che, oramai da 35 giorni, negava loro, di fatto, il diritto al lavoro.
La "marcia dei 40.000", come fu battezzata dai media, non solo rappresentò una cocente sconfitta per il Sindacato, ma costrinse a focalizzare l'attenzione sul cambiamento sociale, politico e culturale che stava maturando nella società.
Allora il Sindacato apprese la lezione e cercò di posizionarsi su condotte meno massimaliste.
Sono trascorsi oltre 30 anni da quel giorno, e soli pochi mesi dai referendum svolti a Pomigliano e Mirafiori, ma l'impressione che si ricava da certe dichiarazioni induce a pensare che, per il Sindacato, il riferimento sia unicamente ancora il vecchio modello di "fabbrica", come se negli anni il vero problema del lavoro non si sia spostato sempre più verso altri settori.
Ad esempio il settore dei servizi che soffre largamente di precariato, carenza di tutele, assenza di ammortizzatori sociali, ma che costituisce una delle poche possibilità di occupazione soprattutto per i giovani.
Anche per questo sarebbe necessario mettere mano ad una riforma del lavoro se si avesse la volontà vera di preoccuparsi seriamente delle nuove generazioni che, solo parzialmente, potranno realizzare il loro futuro nelle fabbriche.
Certo è che l'attuale momento di grave crisi, in cui si dibatte il nostro Paese e non solo, non aiuta ad affrontare con serenità una radicale riforma del lavoro, ma è altrettanto certo che barricarsi in difesa di posizioni ideologiche non potrà servire nè a superare la congiuntura attuale, nè a progettare il futuro.
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