Non è certo la prima
volta che succede, ma anche in questi giorni rimango sconcertato di fronte alla
babilonia di proclami, dichiarazioni, pareri, considerazioni che i media
riferiscono a proposito di quella ipotetica riforma del lavoro che il Presidente del Consiglio continua a sbandierare ai quattro venti.
Forse, avendo
trascorso oltre mezzo secolo della mia vita in aziende, di dimensione e
tipologia diverse, sono sorpreso che a pontificare sul lavoro sia proprio un
individuo che non abbia vissuto neppure un giorno
della sua esistenza in una fabbrica o in un ufficio.
Forse mi
sorprende che sia gli uni che gli altri,
ottenebrati da ideologie e fini contrapposti, nel loro blaterare non accennino
mai a quello che è, o dovrebbe essere il ruolo sociale dell’impresa.
Già, il ruolo
sociale dell’impresa, proprio quello che un giorno, ahimè molto lontano, dopo avermi lisciato il pelo per una mia sventatezza un saggio ed anziano capo mi fece capire con queste parole: “ricordati
sempre che ogni tua scelta, ogni tua decisione ricade sempre non su 1, 100 o 1000
dipendenti ma sulle loro 1, 100 o 1000 famiglie”.
Un concetto
sacrosanto che, coniugato nelle sue molteplici sfaccettature, dovrebbe far
capire quanto siano senza senso ed inutili le diatribe di questi
giorni.
Un concetto che, ad
esempio, costringe a fare i conti con la responsabilità insita nell’assunzione di un nuovo collaboratore.
Ritengo, infatti, obiettivamente
ed umanamente impossibile poter valutare un nuovo assunto nelle poche settimane
di prova previste dai contratti di lavoro.
Non mi riferisco tanto
alle sue capacità e competenze specifiche, quanto piuttosto al suo
atteggiamento verso il lavoro, alla sua attitudine a relazionarsi con i
colleghi, alla continuità del suo impegno e della sua disponibilità.
Basta poco, infatti,
per compromettere l’armonia di un reparto o di un ufficio.
Ecco perché ho considerata sempre una sconfitta personale dover licenziare un neo assunto al termine del periodo di
prova perché non all'altezza delle aspettative,
sia perché ciò significava ammettere di averne sbagliata la valutazione, sia perché con quella decisione mortificavo la sua speranza di aver trovato un lavoro.
D’altra parte far
finta di nulla mantenendo in organico un collaboratore non adatto a svolgere il
suo ruolo avrebbe finito per gravare sui suoi colleghi, sulla loro produttività,
e probabilmente, a lungo andare, sul futuro aziendale.
Per questo sono più
che mai convinto che con una maggiore flessibilità in ingresso, invece dei tre
o sei mesi di prova previsti dai contratti, e magari con un carico fiscale più
favorevole per le nuove assunzioni, per le imprese sarebbe più facile investire
nel tempo su queste risorse umane per aiutarle a rispondere alle aspettative.
Ma quel concetto, appreso molto tempo prima, è risultato vincolante anche quando si è
trattato di affrontare congiunture negative con l’esigenza di fare ricorso alla
cassa integrazione.
Ho sempre pensato
che un lavoratore in cassa integrazione, privato del rapporto quotidiano con il
suo posto di lavoro, si avvilisca e rischi, alla lunga, di scompaginare anche
la vita della sua famiglia.
In verità ho anche
incontrati collaboratori felici di andare in cassa integrazione perché, liberi
dal quotidiano impegno lavorativo, avrebbero avuto più tempo per dedicarsi al tennis, andare in
piscina o curare l’orto.
Fortunatamente si è sempre
trattato di una sparuta minoranza !
Comunque, l’idea di ruolo
sociale dell’impresa è servita, ad esempio, a dare un senso alla scelta di
ripartire tra tutti i collaboratori, capi compresi, le ore di cassa
integrazione, evitando di penalizzare solo una parte di loro con l’allontanamento
dal luogo di lavoro nell’angosciante stato di cassaintegrati “a zero ore”.
Certo, non è stato mai né
facile né semplice perché sempre si è reso necessario riorganizzare il lavoro e riadattare
gli orari per non pregiudicare la funzionalità di impianti ed uffici.
Però, così facendo,
nessun collaboratore si è trovato inattivo da un giorno all’altro e tutti hanno
partecipato, in ugual misura e con consapevolezza, a vivere il momento di crisi aziendale.
A dire il vero,
però, il concetto di ruolo sociale dell’impresa, per quanto giusto sia, è stato costretto a cozzare troppo spesso contro l’ottusità dell’art. 18 ed il radicalismo interpretativo
di sindacalisti e pretori.
Potrei scrivere non
una ma cento pagine riferendo casi reali in cui l’applicazione dell’art. 18 abbia avversato e penalizzato il ruolo sociale dell’impresa e, chissà, magari lo farò
in un’altra occasione.
Fatto sta che, come quel saggio ed anziano mio capo,
anch’io sono ormai solo più un reperto archeologico del secolo scorso e forse per questo, di
fronte al tracollo del Paese che richiederebbe maggior senso di responsabilità
da parte di tutti, non posso fare a meno di rimanere sconcertato e di incazzarmi
assistendo al bailamme di Renzi, della Camusso, di Landini, di Fassina, di
Bersani, di Civati & Co.
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