domenica 30 marzo 2014

Tavole berlusconiane : il primo comandamento

Non ho notizia che la vanità di Berlusconi si sia spinta fino a mettere nelle mani del fedele Sandro Bondi le tavole dei dieci comandamenti, come nell’Antico Testamento si narra che abbia fatto Dio con Mosè.
Ho il dubbio, però, che il signore di Arcore abbia escogitato, per i suoi lacchè, almeno qualcosa di molto simile al primo dei dieci comandamenti, imponendo loro il precetto: “non avrai altro idolo all’infuori di me”.
Un dubbio reso più che legittimo dall’ossessione con cui i suoi cortigiani, vicini e lontani, continuano a venerarlo svisceratamente nonostante i molti misfatti che ha commessi, qua e là, dentro e fuori la sua partecipazione alla vita politica.
Nei giorni scorsi, ad esempio, durante un dibattito televisivo sulla critica situazione ucraina, conseguente all’annessione della Crimea da parte della Russia, uno dei partecipanti ha fatta una affermazione che non so ancora se definire più sconcertante o più ridicola.
L’editorialista del quotidiano “Libero”, Davide Giacalone, riferendo le parole pronunciate poche ore prima da Berlusconi, “risolvere la crisi ucraina solo con le sanzioni non è un’idea saggia”, è arrivato ad affermare che erano le parole di quello che lui considera “il più grande statista europeo vivente”.
Esterrefatto ed incredulo mi sono affrettato a riavvolgere più e più volte il nastro per riascoltare quella asserzione, prima di capacitarmi che il signor Giacalone avesse davvero esternata una così madornale bestialità.
Umanamente è comprensibile che il signor Giacalone possa nutrire sentimenti di profonda riconoscenza nei confronti del signor Berlusconi che, come capo del governo, nel 2010 lo ha nominato presidente di DigitPA e, nel 2011, presidente dell’Agenzia Nazionale per la Diffusione delle Tecnologie dell’Innovazione.
Arrivare, però, ad affermare che Berlusconi sia “il più grande statista europeo vivente”, è una fregnaccia che non può essere giustificata da pulsioni né di riconoscenza né di devozione.
Per questo, suggerirei al signor Giacalone di leggere la definizione che il Dizionario Treccani dà di statista: “Uomo, donna di stato: persona che ha una profonda esperienza, teorica e pratica, dell’arte di governare uno stato”.
Ora, Berlusconi ha di certo una profonda esperienza … nelle arti ludiche e nei bunga bunga, ma senz'altro non eccelle nella “arte di governare uno stato”.
L’ex cavaliere, infatti, ha dimostrata tutta la sua insipienza presiedendo negli ultimi venti anni non uno, bensì quattro governi che la storia ricorderà solo per la loro inanità e per le “leggi ad personam”.
Anche dagli ambienti internazionali Berlusconi è sempre stato considerato un parvenu inaffidabile e tragicomico, e non solo per le sue esibizioni da guitto, ma anche per i legami personali di amicizia intrattenuti con individui non certo paladini della democrazia, da Gheddafi a Mubarak, da Janukovyč a Putin, per citarne alcuni.
La verità è che colui che Giacalone definisce, mi auguro per piaggeria e non per convincimento, “il più grande statista europeo vivente”, ha trascinato il nostro Paese sull’orlo di un baratro economico e sociale dal quale gli italiani, con fatica e sacrifici, stanno ancora cercando di salvarsi.
Ho il sospetto, perciò, che a Giacalone siano sfuggiti molti capitoli della storia italiana degli ultimi venti anni.  

sabato 29 marzo 2014

Da poeti, santi e navigatori a venditori di panzane

Un tempo l’orgoglio italico era esaltato dall’essere, il nostro, un “paese di santi, poeti e navigatori”.
Da alcuni lustri, invece, non abbiamo più motivo di essere orgogliosi perché al posto dei santi, poeti e navigatori ci sono individui conosciuti per la sfrontatezza con cui riescono a sparare cazzate a gogò.
Come se non bastasse, maggiormente abili ed avvezzi a sparare cazzate, sono sedicenti leader politici che, con balle colossali, abbindolano milioni di italiani, superficiali e sprovveduti.
Questa deprecabile moda del cacciar balle è stata favorita, però, non solo da quegli italiani gonzi che non si curano della credibilità di ciò che dice questo o quel leader, ma soprattutto da una informazione, cortigiana e sottomessa, che non ha il coraggio e la forza per smascherare e contestare le spacconate e le fandonie.
Ad esempio, grazie al mutismo dei media, se non addirittura al loro plauso, Silvio Berlusconi ha potuto spacciare, per anni, le sue panzane a milioni di grulli che, abboccando, hanno creduto, di volta in volta, alla creazione di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro, alla riduzione delle tasse, al ponte sullo stretto, al completamento dei lavori per l’autostrada Salerno – Reggio Calabria, alla restituzione dell’IMU, alla pronta ricostruzione dei comuni aquilani distrutti dal sisma, alla nipote di Mubarak, etc.
Senza dimenticare il celebre “contratto con gli italiani”, che Berlusconi sottoscrisse in TV sotto lo sguardo compiaciuto del ciambellano Bruno Vespa.
Ebbene, con quel contratto Berlusconi si impegnava a realizzare cinque obiettivi,  vincolandosi a non più candidarsi se non ne avesse rispettati almeno quattro.
Da quel lontano 8 maggio 2001 molta acqua è passata sotto i ponti, nessuno di quei cinque impegni è stato mai soddisfatto dai governi Berlusconi e, tuttavia, lui è rimasto sulla scena politica, non solo ma, pur pregiudicato a piede libero, ancora oggi prova a infinocchiare gli italiani facendo passare per una mammoletta il suo amico comunista, Vladimir Putin ex capo KGB, che ha invasa militarmente la Crimea.
Tra qualche giorno, finalmente segregato agli arresti domiciliari, è auspicabile che Berlusconi smetta di sparare cazzate.
I milioni di italiani gonzi, però, non devono disperarsi perché possono sempre mettere la loro dabbenaggine a disposizione di un altro formidabile cacciaballe.
Con il suo linguaggio volgare e virulento, infatti, Beppe Grillo non ha nulla da invidiare a Berlusconi nella spregevole arte di circuire gli italiani usando la menzogna.
Nei giorni scorsi, approfittando di una sua prima intervista televisiva da santone del M5S, Beppe Grillo è riuscito, in pochi minuti, ad inanellare una serie di scempiaggini farneticanti e grottesche.
Voglioso, ad esempio, di ostentare la sua padronanza degli eventi internazionali, Grillo si è lanciato in una dissertazione sulle vicende ucraine, affermando, tra l’altro, che il referendum per la secessione, svoltosi in Crimea, sarebbe stato assolutamente legittimo perché attuato sotto il controllo di 150 osservatori ONU.
Una balla doppia, dovuta a malafede o disinformazione!
Infatti, non solo le Nazioni Unite non avevano inviati osservatori, ma soprattutto i militari russi e filorussi hanno impedito l’ingresso in Crimea agli osservatori OCSE incaricati di vigilare sul referendum.
Salterellando, così, tra una balla e l’altra Grillo è arrivato a sostenere di avere prove certe del siluramento di Bersani.
Quali sarebbero queste prove certe ?
Grillo ha affermato di trovarsi presso l’Ambasciata Inglese di Roma, un mese prima che Bersani rinunciasse all’incarico di formare il governo, e di aver appreso che Letta sarebbe stato ospite dell’Ambasciatore a pranzo!
E questa sarebbe una prova certa ed inconfutabile?
Piuttosto, perché Grillo non chiarisce, invece, i perché dei frequenti e sospetti inviti a pranzo che lo portano a frequentare le Ambasciate USA e GB ?
Queste sue frequentazioni con i diplomatici americani ed inglesi richiamano alla memoria quelle, non meno sospette ed inquietanti, di Antonio Di Pietro che, ai tempi di “mani pulite”, era solito correre al Consolato USA di Milano per fare rapporto sulle indagini in corso.
È lecito domandarsi: ma anche Grillo, come già accadde a Di Pietro, è chiamato a rapporto per prendere imbeccate dai diplomatici USA e GB ?

lunedì 24 marzo 2014

Peggio precario o disoccupato ?

Ottenebrati da turbe ideologiche, Camusso, Landini, Angeletti, e perfino l’ex sottosegretario del governo Letta, Stefano Fassina, non devono aver tentato, neppure per un istante, di mettersi nei panni di un giovane, in cerca di lavoro, per domandarsi se per lui sia peggio vivere da precario o da disoccupato.
È questa l’unica verosimile spiegazione per decifrare come mai siano scattati all’unisono nello scagliarsi contro il decreto legge che riforma i contratti a termine e l’apprendistato.
Al grido “così aumenta la precarietà” questi paladini del “posto fisso a vita”, come tanti Don Chisciotte, si battono per difendere un passato che non c’è più ma, soprattutto, che non potrà più ritornare.
Il mondo del lavoro è già cambiato, ma soprattutto continuerà a trasformarsi, necessariamente, per non perdere contatto con un sistema economico in cui le imprese potranno sopravvivere solo se flessibili, competitive e  innovatrici.
È anacronistico, perciò, illudersi che possa ancora avere un futuro la cultura del “posto fisso a vita”, garantito da contratti che ne tutelano la stabilità a prescindere da capacità, professionalità, efficienza, impegno del lavoratore.
Perché non riconoscere che, negli anni, il diffuso e continuo ricorso alla cassa integrazione sia servito solo ad occultare il vero problema, cioè quello di un mercato del lavoro reso atrofico dalla mancanza di  flessibilità e mobilità ?
Come non ravvisare nella cassa integrazione senza fine un modo per illudere il lavoratore con la speranza, spesso ingiustificata, di conservare il suo posto fisso, disincentivandolo così dal cercare un altro lavoro ?
È altresì vero, però, che molti cassintegrati, in attesa di essere reinseriti in azienda, contribuiscono ad alimentare il mercato del lavoro in nero.
La verità è che il lavoro non è solo un mezzo per ottenere una rimunerazione, ma è anche, e soprattutto, il modo per realizzare la propria dignità di persona vitale, di attore protagonista del sistema economico.
Per questo disoccupati e cassintegrati sono a rischio di crisi depressive.
Ecco perché mi è ancora più difficile giustificare le critiche che, in questi giorni, sono mosse da più parti alla possibilità che un individuo senza occupazione, giovane o non più giovane, diventi protagonista del mondo del lavoro con un contratto a termine che gli conferisca la dignità di lavoratore per uno, due o tre anni.
Un contratto a termine che, di certo, non può prevedere le spropositate tutele che i sindacati vorrebbero imporre.
Finalmente, invece, saranno solo le capacità, l’operosità e la serietà, dimostrate sul campo dal lavoratore, che lo potranno tutelare.
D’altra parte, vogliamo, o no, che la meritocrazia si affermi anche nei luoghi di lavoro ?
Perché continuare, perciò, a dare protezione a lavoratori incapaci, apatici, sfaccendati, negando in questo modo la possibilità di un ricambio per i più meritevoli ?
Chissà, quindi, che proprio le maggiori elasticità e durata, dei contratti a tempo determinato, non siano la strada giusta per offrire, a molti disoccupati, la possibilità di immettersi nel mondo del lavoro e di dimostrare le loro attitudini e capacità.
Se poi, con la parola precariato si vuole sottintendere, invece, che un lavoratore non potrà più adagiarsi nello stesso posto di lavoro, per decenni, allora significa che, in modo subdolo, si rifiutano i concetti di flessibilità e mobilità, irrinunciabili per la sopravvivenza delle imprese private e pubbliche.    
Concetto, quello della mobilità nel lavoro, che, ad esempio, incominciava a manifestarsi, in Italia, già agli inizi degli anni ’60, quando facevo i primi passi in azienda.
Uno dei direttori di allora (oggi lo definirei manager) mi consigliò una regola elementare: “non meno di tre ma non più di cinque”.
Con quelle semplici parole mi fece capire che mi sarebbero occorsi “non meno di tre” anni per acquisire le competenze ed esperienze indispensabili per impadronirmi a 360° di una mansione, ma che, dopo i cinque anni, fatalmente avrei persi gli stimoli per infondere, nella stessa mansione, nuova vigoria e creatività  .
Già allora, dettato dal buonsenso, il suggerimento era di ricercare e di non temere la mobilità nel lavoro. 

sabato 22 marzo 2014

Mauro Moretti (FFSS) … prego si accomodi

Tutti sono utili ma nessuno è indispensabile, anzi, in alcuni casi ci sono individui che possono risultare addirittura inopportuni per la collettività in cui vivono ed operano.
È il caso, ad esempio, dell’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, che oggi è salito all’onore delle cronache per una dichiarazione che potremmo definire, con eufemismo, sconveniente e scriteriata.
Questo signore, a proposito dell’ipotesi prospettata, dal Presidente del Consiglio, di porre un tetto agli stipendi dei manager pubblici, ha reagito minacciando di abbandonare la lucrosa poltrona sulla quale siede dal settembre 2006.
Mauro Moretti percepisce, per il suo incarico, il misero stipendio annuo di 875.000 euro, naturalmente oltre ai benefit, che corrisponde a 35 volte lo stipendio percepito, in un anno, dal macchinista che conduce i convogli ferroviari.
Cosa c’entra il confronto con il macchinista ?
Proprio nulla, se non fosse per il carico di stress, di applicazione, di responsabilità che grava su colui che è chiamato ad assicurare non solo la guida del convoglio, ma soprattutto un sicuro e sereno viaggio ai passeggeri che gli sono affidati.
Aldilà, però, di questo marginale inciso, risultano ancor più inaccettabili le parole di Mauro Moretti quando si avventura nel paragonarsi al suo collega, che è a capo delle ferrovie tedesche e che, secondo Moretti, percepirebbe uno stipendio triplo del suo.
Peccato che nell’azzardare il riferimento al collega tedesco, l’amministratore delegato di FFSS non si sia reso conto di darsi la zappa sui piedi.
La Deutsche Bahn AG, il più importante gruppo ferroviario europeo, opera su una rete di 38.000 chilometri e con oltre 30.000 treni giornalieri.
DB occupa 276.000 dipendenti, contro i 72.000 di FFSS, ed ha un fatturato di 34.5 miliardi di euro a fronte degli 8.2 di FFSS.
Basterebbero già solo questi quattro dati per svergognare l’improponibile comparazione che Moretti ha voluto azzardare con il collega tedesco.
Ma c’è di più, molto di più.
Moretti avrebbe dovuto provare vergogna nell’osare un raffronto con DB se solo avesse meditato sul livello di servizio offerto ai passeggeri tedeschi, in termini di copertura, orari, puntualità, sicurezza, manutenzione e pulizia dei treni.
Moretti dovrebbe riflettere, infatti, che se la sua retribuzione fosse correlata ai disservizi che la sua inettitudine manageriale procura ai pendolari ed ai viaggiatori in genere, le FFSS dovrebbero corrispondergli uno stipendio di certo inferiore a quello di un macchinista.
Per cui, signor Moretti, se, indispettito dalla possibilità che le riducano il suo misero emolumento, decidesse di lasciare la poltrona di amministratore delegato di FFSS … prego, si accomodi.
Non sarà difficile sostituirla con un manager più attento e sensibile alle esigenze dei milioni di viaggiatori che, giornalmente, si avvalgono dei servizi di FFSS

giovedì 20 marzo 2014

La oscura strada della spending review

Come si saranno resi conto i lettori abituali di questo blog, decenni di attività lavorativa mi hanno trasformato in un drogato di pragmatismo.
Per questo non posso fare a meno di correre lungo i sentieri della concretezza di fronte a notizie o comportamenti sui quali i media sguazzano.
In questi giorni, ad esempio, è tornato di moda discutere del processo di spending review affidato, dal governo, al commissario straordinario Carlo Cottarelli.
Con qualche decennio di ritardo la politica ha scoperto, finalmente, lo strumento per la revisione delle spese, adottato da anni in Italia  da molte imprese con successo.
L’esperienza insegna, però, che la spending review è quasi sempre una strada tormentata e dolorosa.
Questa volta, però, le proposte di Cottarelli, pur se giuste e razionali, dovranno fare i conti anche  con quella cultura, politica e sindacale, che è avvezza a considerare il pubblico denaro solo una via demagogica per ottenere il consenso.
È la cultura dell’abuso dissennato di denaro pubblico, alla quale vanno imputati sia l’abnorme debito pubblico, accumulatosi negli anni, sia, di conseguenza, i dolorosi sacrifici ai quali, ciclicamente, sono chiamati gli italiani.
Come non domandarsi, perciò: ma politici e sindacalisti si asterranno dal mettere i bastoni fra le ruote della spending review e ne accetteranno gli effetti ?
Nelle aziende, infatti, le cose vanno diversamente.
Le redini della spending review sono nelle mani di un management, responsabile dei risultati gestionali, che non solo ha dalla sua il potere decisionale ed esecutivo, ma ha anche la forza negoziale per contrastare le riluttanze sindacali.
Quali, invece, sono i poteri decisionali e negoziali su cui potrebbe contare il governo Renzi per superare gli scogli del Parlamento e del Sindacato ?
È bastato che si diffondesse una prima indiscrezione sul possibile esubero di 85.000 dipendenti nel pubblico impiego, per scatenare le immediate reazioni di politici e sindacalisti.
C’era da aspettarselo !
Il pubblico impiego costituisce, da sempre, la sterminata prateria in cui politici di ogni colore, con il tacito assenso dei sindacati, hanno mandati al pascolo parenti, amanti, amici, amici degli amici, raccomandati.
Chi di noi non ha toccato con mano, almeno una volta nella sua vita, la inoperosità di certi uffici pubblici, la ridondanza dei loro organici, l’irritante indolenza nel lavorare, lo spropositato assenteismo ?
E poi, quante volte le cronache ci hanno raccontato di dipendenti pubblici pizzicati, durante l’orario di lavoro, a fare shopping o a dedicarsi ad altre faccende personali ?
E che dire delle strutture pubbliche inattive, presso le quali lo Stato mantiene dipendenti che non fanno nulla di utile per la collettività ?
A pochi chilometri da qui, ad esempio, c’è un costoso ed imponente complesso statale, utilizzato nell’anno per poche settimane, nel quale sono impiegate decine di addetti che, ogni giorno, dopo aver prestate le contrattuali 6 ore di presenza improduttiva, possono dedicarsi ad un secondo lavoro, ovviamente in nero. 
Per tutto questo sono certo che se ognuno di noi segnalasse anche uno soltanto degli sfaccendati che incontra nelle strutture pubbliche e che campano a spese dei contribuenti … si potrebbero individuare ben più degli 85.000 esuberi ipotizzati da Cottarelli, con buona pace di Susanna Camusso & Co.
85.000 esuberi che pesano sulle casse dello Stato per 3 miliardi di euro ! 

martedì 18 marzo 2014

Se anche i preti glorificano l’illegalità …

Nei giorni scorsi il presidente del Bayern Monaco, Uli Hoeness, è stato condannato, in primo grado, a 3 anni e 6 mesi per frode fiscale.
Una notizia come tante che non avrebbe richiamata l’attenzione dei media internazionali nemmeno per la popolarità del Fuβball Club Bayern München, detentore della Champions League.
Sennonché, a suscitare tanto clamore sono state le parole con cui Uli Hoeness, dopo aver rassegnate le dimissioni da presidente del Bayern Monaco, ha commentata la sentenza di condanna.
“Dopo aver parlato con la mia famiglia ho deciso di accettare il giudizio del tribunale di Monaco sulla mia vicenda fiscale. Ho dato incarico ai miei legali di non andare in appello. L’evasione fiscale è stato l’errore della mia vita, accetto le conseguenze di questo errore. Questo corrisponde al significato che do al decoro, al comportamento ed alla responsabilità personale.”
Decoro … comportamento … responsabilità personale !
Sono parole sconosciute nel linguaggio dei politici, boiardi di Stato, manager aziendali, di casa nostra.
Infatti, il nostro è un Paese nel quale non solo un condannato, per gravi reati fiscali, non andrebbe mai in galera, ma dove ci tocca assistere all’inqualificabile comportamento di un pregiudicato che, dopo tre gradi di giudizio, si rifiuta di accettare la sentenza dei giudici e lo lasciano libero di sragionare contro la magistratura.
In Germania, invece, il signor Uli Hoeness non solo ha riconosciuta la sentenza di primo grado ma, per sua scelta, rinunciando a ricorrere in appello ha deciso, di fatto, di affrontare il carcere per scontare 3 anni e 6 mesi di reclusione.
Eppure, Hoeness non è un extraterrestre piombato per caso tra di noi, è un signore che vive e lavora a meno di 500 chilometri da Milano, in una nazione occidentale, membro dell’Unione Europea, esattamente come l’Italia.
Per questo ho il dubbio che i valori etici possano variare in base alla latitudine.
Un dubbio non irragionevole se, nel giudicare reati quali, ad esempio, la corruzione, la frode fiscale, la truffa, il meretricio ideologico, la ruberia di denaro pubblico, l’opinione pubblica dà prova di essere suggestionata dalla diversa dislocazione.
In verità, infatti, un caso come quello di Uli Hoeness non potrebbe verificarsi mai in Italia, perché il nostro è un Paese in cui regnano impudenza ed ipocrisia, dove un mafioso criminale come Riina non riconosce né la legge né i giudici, nel quale i politici attraverso l’immunità rivendicano di fatto l’impunità, dove la ruberia del pubblico denaro non indigna più nessuno.
Forse, anche per questo, gli italiani si sentono poco europei, ed i francesi, tedeschi, svedesi, olandesi, diffidano degli italiani.
Può darsi che sia un punto di vista troppo intollerante, ma come non restare di sasso ed irritarsi se anche un prete di Sacra Romana Chiesa stravolge la moralità e rinnega la giustizia ?
Un certo don Antonio Mazzi, brandendo il “perdono cristiano” come se fosse l'arma per un regolamento di conti, è arrivato a dire: “sarei capace di perdonare chi ammazza qualcuno, se chiede perdono, ma non perdonerei mai i giudici che hanno condannato Berlusconi!”.
Se, nel nostro Paese, anche un prete di Santa Romana Chiesa approva “cristianamente” l’immoralità e, sempre “cristianamente”,  condanna chi applica la legge … allora abbiamo raschiato il fondo del barile !

lunedì 17 marzo 2014

Matteo Renzi … quanta fretta, ma dove corri dove vai

Quanta fretta, ma dove corri dove vai
se ci ascolti per un momento, capirai,
lui è il gatto, ed io la volpe, siamo in società
di noi ti puoi fidare...
Come non ripensare ai versi di questa celebre canzone di Edoardo Bennato mentre osserviamo Matteo Renzi ?
Con il passare dei giorni, infatti, si ha sempre più la sensazione che, anche Matteo Renzi, come Pinocchio, si sia lasciato prendere in mezzo da una coppia astuta ed infida, un gatto e una volpe della politica italiana.
Una coppia che ha la capacità e, forse, anche motivi oscuri per influenzare, a proprio piacimento, il pinocchio fiorentino.
L’impressione è che il gatto e la volpe, dopo aver indotto Renzi a sottoscrivere i patti, costringendolo ad accettare i loro diktat, si augurino, oggi, che l’allocco, avventurandosi a briglia sciolta nella scena politica, vada a sbattere in modo rovinoso, spalancando le porte quanto prima alle elezioni anticipate.
Non è casuale, infatti, che Berlusconi non perda occasione per ricordare, ai suoi accoliti, di tenersi pronti perché presto si tornerà alle urne, e si spinge fino ad azzardare una previsione, tra dodici o quindici mesi al massimo.
Che fa Renzi, nel frattempo, oltre a sognare di rimanere in sella, con il suo governo, fino al 2018 ?
Blatera … blatera … blatera !
Ad esempio, il “Renzi show”, andato in scena mercoledì al termine del consiglio dei ministri, ancora una volta ha rovesciato un diluvio di parole sui malcapitati presenti nella sala stampa di Palazzo Chigi.
Incautamente Renzi aveva battezzata la giornata “un mercoledì da leoni”, mentre, alla luce di ciò che è avvenuto, sarebbe più ragionevole ricordarla, piuttosto, come “un mercoledì da pavone” vista l’abilità di Matteo Renzi nel pavoneggiarsi.
Dopo la conferenza stampa, di quel “mercoledì da pavone”, i media si sono sbizzarriti nell’accomunare il fare di Renzi a quello dei conduttori di televendite.
Di certo i professionisti delle televendite non si saranno sentiti gratificati da questo paragone.
Loro, infatti, usano il piccolo schermo per proporre e vendere cose concrete: dai materassi alle pentole, dalle vasche da bagno allo pseudo-antiquariato, e via dicendo.
Renzi, invece, con le sue logorroiche esternazioni ha offerto, almeno fino ad oggi, solo tanto fumo anche se, va riconosciuto, lo ha fatto con il piede sull’acceleratore ed a tutta velocità.
Proprio quella velocità per la quale, come sperano il gatto e la volpe, potrebbe andarsi a schiantare.
Quanta fretta, ma dove corri dove vai
se ci ascolti per un momento, capirai,
lui è il gatto, ed io la volpe, siamo in società
… e dei patti al Nazareno non ti fidare !

sabato 15 marzo 2014

“Porcellum” o “opprobrïum” … la truffa continua

Per anni siamo andati alle urne con una legge elettorale, il “porcellum”, voluta da Berlusconi, e si è dovuta attendere una sentenza della Consulta perché la classe politica si rendesse conto, finalmente, che la legge era incostituzionale.
Era lecito attendersi che l’antica locuzione latina, “errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, consigliasse ai politici una riflessione sulla necessità di evitare la reiterazione dello stesso errore.
Invece no ! Mercoledì scorso, 365 deputati hanno approvata, in prima lettura, la nuova legge elettorale, ancora una volta voluta da Berlusconi con la condiscendenza ossequiosa di Matteo Renzi.
Illustri costituzionalisti si sono già espressi, individuando più di un motivo di incostituzionalità anche in questo “opprõbrïum”.
Purtroppo, però, le greggi dei politici, sottomesse ai capobastone, ai patti segreti ed inconfessabili, agli inciuci, non possono dare vita che a leggi ignominiose.
Non vorrei ripetere le molte ragioni per le quali considero oscena questa legge, ma desidererei, oggi, documentarne le sue connotazioni truffaldine, con l’aiuto di una simulazione.

Ipotizziamo, ad esempio, di assumere come punto di riferimento gli elettori, chiamati alle urne il 24 febbraio 2013, ed i loro comportamenti.

Utilizziamo, poi, come base della simulazione, le “indicazioni di voto” rilevate dai sondaggi, condotti nell’ultima settimana da quattro istituti demoscopici (IPSOS, Euromedia, Datamedia e EMG), e calcoliamone i valori medi.
Completiamo quindi il quadro traducendo in voti le percentuali di consenso ottenute, assumendo, come ipotesi, l’attribuzione di tutti i 33.646.476 voti che, per le elezioni politiche 2013, il Ministero dell’Interno ha indicati come voti validi.


A questo punto, pur se risultati da una semplice simulazione, disponiamo di alcuni dati che ci consentono di fare qualche considerazione su come questa nuova legge elettorale mortifichi, più del “porcellum”, la partecipazione dei cittadini al voto.
  1. Con la attuale struttura del panorama partitico, in Parlamento entrerebbero solo i rappresentanti di tre formazioni: Partito Democratico, Forza Italia e M5S.
  2. Se correlati all’intero corpo elettorale, e non solo ai voti validi, questi tre partiti raccoglierebbero i consensi del 54,1% dei cittadini aventi diritto al voto.
  3. Non solo, ma è paradossale che ben 8.251.798 cittadini, pari cioè al 24,5% dei voti validi, cioè un quarto di coloro che si recassero alle urne, non sarebbero rappresentati in Parlamento perché i partiti, ai quali affiderebbero il loro voto, non supererebbero le soglie di sbarramento.
  4. A rendere ancora più perverso il sistema, però, è che di questi 8.251.798 voti, ritenuti immeritevoli di essere rappresentati in Parlamento, con il turpe inganno delle coalizioni il PD ne arrafferebbe, per suo uso, 1.362.682, mentre FI se ne impadronirebbe addirittura di 4.567.509.
  5. Eppure, nel febbraio 2013, con il tanto deprecato “porcellum”, i voti che non avevano conseguita una rappresentanza parlamentare erano stati soltanto 2.354.699 !
  6. In pratica, cioè, la nuova legge sembrerebbe suggerire a poco più di otto milioni di elettori di non scomodarsi per andare ai seggi perché tanto il loro voto non conterebbe nulla !
  7. In base alle indicazioni di questi sondaggi, perciò, andrebbero al ballottaggio due dei tre partiti: PD e FI, titolari rispettivamente del 31,2% e del 22,4% dei voti validi.
  8. Al ballottaggio questi due partiti si contenderebbero il diritto di impossessarsi di 325 seggi, cioè la maggioranza dei 630 deputati.
  9. Alla fine, quindi, potrebbe disporre della maggioranza in Parlamento un partito che, se messo in relazione all’intero corpo elettorale, rappresenterebbe, nel caso del PD, il 22,3% e, nel caso di FI, il 16,1%!

Come non definire una truffa una legge elettorale che affiderebbe la gestione del Paese nelle mani di un partito che avrebbe ottenuto il voto dal 22,3%, o addirittura solo dal 16,1% del corpo elettorale?
Possibile che i 365 lacchè e pecoroni, che hanno approvata in prima lettura questa ignobile legge, non si siano resi conto di ciò che stavano combinando ?
Non si vergognano per avere, con la loro insensatezza, umiliata la democrazia e frodato il popolo italiano ?

giovedì 13 marzo 2014

Chapeau per Michaela Biancofiore

Devo riconoscere, per onestà, che non ho mai nutrita simpatia per lei, al punto di fare zapping tutte le volte che lei fosse ospite in un talkshow televisivo.
In ogni caso, non mi era simpatica non certo per la diversità delle nostre visioni politiche.
Anche perché, in realtà, io sono posseduto, anzi, da un assurdo masochismo che mi induce ad ascoltare più volentieri coloro che hanno idee molto diverse dalle mie, per una spocchiosa fiducia nel riuscire, solo in questo modo, a consolidare le mie convinzioni.
Il fatto è che l’onorevole Michaela Biancofiore non mi era simpatica perché mi è sempre parsa una proselita berlusconiana, dogmatica ed ottusa, capace di osservare la realtà unicamente attraverso occhiali appannati da una faziosità intransigente e paranoica.
In questi giorni, però, assistendo al dibattito sulla ignobile legge elettorale, ho avuto modo di osservarla, agguerrita e determinata, nel proporre la “parità di genere”, anche in dissenso con le direttive impartite dal suo capogruppo, il mefistofelico Renato Brunetta.
Ha preso parte al malcontento bipartisan delle “parlamentari in bianco”, senza perdersi d’animo neppure quando l’egemonico maschilismo dell’aula ha respinte le loro istanze, una dopo l’altra.
Ma devo ammettere di aver provati stupore ed incredulità, questa mattina, quando Michaela Biancofiore ha presa la parola, a titolo personale, per motivare il suo voto in contrasto con la posizione assunta da Forza Italia.
Sul suo viso e nel suo timbro di voce era palese il turbamento emotivo nell’esprimere la sua amarezza proferendo queste parole: “Oggi mi sono vestita di nero perché la Camera sta celebrando il funerale della democrazia nella mia terra (Alto Adige) ed in Italia” … “il Senato deve cambiare questo obbrobrio o non rimetterò più la spilletta di Forza Italia”.
Chapeau Michaela Biancofiore !
Chapeau da uno che non voterà mai per lei, ma che ritiene doveroso rendere onore al coraggio della sua onestà intellettuale, proprio mentre molte altre sue colleghe, deposte le vesti bianche, si sottomettevano al volere dei loro capobastone.

mercoledì 12 marzo 2014

Dalla lettura di Squinzi alla statua di Matteo Renzi

Ci sono giorni in cui il sovrapporsi degli accadimenti provoca incertezza sul tema da menzionare su questo blog.
È ciò che è accaduto, ad esempio, nella giornata di oggi, perciò per uscire dall’imbarazzo ho scelto di fare un collage delle due circostanze che più mi hanno fatto riflettere.
Di buon’ora, sfogliando il Corsera, mi sono imbattuto nella lettera aperta, firmata dal Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, pubblicata sotto il titolo: “Ridurre il cuneo fiscale delle aziende unica strada per creare occupazione”.
Non meno provocatorio il catenaccio: “Squinzi: chiediamo agli italiani se vogliono un lavoro o qualche decina di euro in più”.
Il caso ha voluto che, nel post di ieri, avessi già indicato perché sono contrario a privilegiare le imprese nella distribuzione delle scarse risorse disponibili, visto che la storia di questi anni ha dimostrato la inefficacia, per creare occupazione, di tutti gli aiuti dispensati alle aziende.
Comunque, per verificare che non mi fosse sfuggito qualcuno degli aspetti significativi che avevano indotto Squinzi a sostenere l’importanza di “ridurre il cuneo fiscale delle aziende”, ho letta la sua analisi.
Ammetto, con franchezza, di essere rimasto deluso sia dalla superficialità che dalla impalpabilità degli argomenti addotti a sostegno della solita tiritera confindustriale.
Ora, è vero che in Italia il costo del lavoro è spropositato, ma addebitare al costo del lavoro la chiusura di migliaia e migliaia di aziende, è una sciocchezza.
Si tratta di una affermazione troppo semplicistica perché, pur soffrendo dello stesso spropositato costo del lavoro, sono migliaia le imprese, di ogni comparto, che continuano ad essere competitive e ad aver successo sui mercati esteri, mentre a chiudere i battenti sono, in maggioranza, aziende piccole e medie che hanno come unico sbocco, per i loro prodotti, il mercato interno.
Quindi, riterrei più sensato individuare la causa di molti tracolli in un mercato, quello domestico, che da anni regredisce con un innegabile calo dei consumi, conseguenza della depauperata capacità di spesa di milioni e milioni di italiani.
Sono sicuro che, per il signor Squinzi, una maggiore disponibilità, ogni mese, di 80 o 100 euro non conti nulla, ma per quei dodici milioni di italiani che guadagnano meno di 1.500 euro, 80 o 100 euro in più, in busta paga, rappresenterebbero una vera boccata di ossigeno.
Una boccata di ossigeno utile a rivitalizzare i consumi e, quindi, ad aiutare le imprese tutte, anche quelle artigianali.
Non una parola, invece, da parte di Squinzi sulle responsabilità degli imprenditori per le scelte sbagliate, per non aver investito in innovazione, per aver spremute come limoni le loro aziende, etc.  
Mentre ero assorto nella amena lettura della sagace dissertazione economica di Guido Squinzi continuavano a giungere, dalla Camera, notizie senza speranza sull’iter di approvazione della spregevole legge elettorale voluta da Berlusconi con la condiscendenza di Matteo Renzi.
Non mi sorprenderei se, in queste ore, ad un qualche valente scultore fosse commissionata una statua di Matteo Renzi da collocare nel parco di Villa San Martino, ad Arcore, come tangibile segno della gratitudine per aver disseppellito Berlusconi rimettendo, nelle sue mani, il pallino della politica italiana.
È apparso chiaro, fin dalle prime fasi che a condurre il gioco come mazziere fosse Berlusconi al quale spettava, di fatto, l’ultima parola sulla approvazione o meno di ogni emendamento.
Lo si è visto, ad esempio, quando un voto “segreto” ha bocciato l’emendamento sulla “parità di genere”, nonostante l’impegno bipartisan delle parlamentari.
Il ripetuto ricorso alla infamia del voto segreto conferma che molti parlamentari, provando vergogna per il voto che erano obbligati ad esprimere per ordine del loro capobastone, hanno preferito non far conoscere agli italiani la loro sudditanza all’inciucio.
La Camera licenzierà così una legge elettorale scellerata, squalificata da coalizioni fraudolente, da paradossali soglie di sbarramento, da liste bloccate, dalla negazione all’elettore del diritto di eleggere i propri rappresentanti, dalla mancanza della “parità di genere”, da un abnorme premio di maggioranza, etc.
Non so se il Senato sarà in grado di porre rimedio a questa nefandezza.
È certo, però, che dopo non aver disertato mai, per decenni, la cabina elettorale, considerando mio diritto-dovere civico partecipare, per il futuro, se l’Italicum sarà confermato così come licenziato dalla Camera, considererò mio diritto-dovere astenermi.

martedì 11 marzo 2014

IRPEF o IRAP … “this is the problem”

È da molti giorni, ormai, che Matteo Renzi da fiato alle trombe, in ogni dove, per annunciare urbi et orbi che mercoledì prossimo il consiglio dei ministri metterà mano ad una riduzione delle tasse.
Se non si tratterà di una delle solite bufale propagandistiche che hanno buggerati gli italiani nel ventennio berlusconiano, sarà importante comprendere con quali obiettivi e, per quale impatto concreto, i provvedimenti renziani saranno stati concepiti.
Pazientiamo ancora qualche ora e poi scopriremo se avrà primeggiato il proposito di dare una mano alle fasce più deboli del nostro Paese o se, piuttosto, saranno prevalse le pretese bislacche e voraci dell’una o dell’altra consorteria.
Molti politici, opinionisti e commentatori, infatti, atteggiandosi a premi Nobel per l’economia, si sono affaccendati in questi giorni per suggerire al governo le loro ricette, ovviamente di parte.
Ad esempio, di fronte alla ipotesi dell’alternativa tra IRPEF ed l’IRAP, molti, tra cui alcuni membri del governo, si sono schierati a favore della riduzione della tassa per le imprese, sostenendo che, solo dando loro una boccata di ossigeno, le si invoglierebbe a creare nuovi posti di lavoro.
Sarà un mio limite, ma non riesco proprio a trovare un nesso tra riduzione dell’IRAP e creazione di posti di lavoro.
Sono più propenso a credere, ad esempio, che beneficiate da uno sconto sull’IRAP molte imprese ne approfitterebbero per ridurre il loro indebitamento con le banche, oppure per ricostituire il capitale sociale dissanguato dalle perdite subite in questi anni di crisi, se non addirittura per far confluire la minore tassa in utili.
Non riesco proprio ad immaginare perché, in presenza di un mercato stagnante, o peggio in regressione, le imprese dovrebbero optare per impegnare lo sconto di IRAP in nuovi investimenti.
Ai miei tempi, ci insegnavano che le imprese, investono, di solito, e creano posti di lavoro quando il mercato “tira”, mentre disinvestono, licenziano e ricorrono alla cassa integrazione quando il mercato è in recessione.
Può sembrare una osservazione troppo banale ed antiquata, per essere presa in considerazione da politici e cattedratici, ma la storia insegna che, nelle fasi di effervescenza dei mercati, non rappresentava un problema trovare un posto di lavoro.
Oggi, invece, perfino il mercato dei beni di prima necessità continua a registrare segni recessivi.
Un recente studio dell’istituto ISME dimostra che nel 2013, rispetto al 2012, si sono verificare preoccupanti flessioni anche nei consumi dei prodotti alimentari come: pasta – 9%, olio di oliva – 6%, latte – 8%, snack – 7%, e così via.
Di fronte a questi dati mi domando, ad esempio, perché dovremmo attenderci la creazione di nuovi posti di lavoro da parte di un pastificio le cui linee di produzione stanno lavorando al di sotto delle loro capacità?
Forse, solo perché a quel pastificio il governo abbuonerebbe un po’ di IRAP ?
Se fossi l’imprenditore di quel pastificio mi auspicherei, invece, che il governo si preoccupasse di rivitalizzare il mio mercato, così, tornando a crescere i consumi di pasta, potrei utilizzare a pieno regime gli impianti di produzione, farei rientrare in fabbrica gli addetti in cassa integrazione e contando su una crescita del mio business programmerei di incrementare gli organici con nuove assunzioni.
Peraltro, da accorto imprenditore sarei consapevole che, con gli impianti che producono a scartamento ridotto, aumenta il costo per unità prodotto con conseguente riduzione dei margini.
Per questo, il vero obiettivo del governo dovrebbe essere quello di dare vitalità ai mercati, stimolando la crescita dei consumi, aiutando così le imprese a impiegare al meglio i loro impianti ed a stabilizzare i livelli occupazionali e, magari, con l’espansione dei consumi, creando nuovi posti di lavoro.
Siccome, però, le risorse economiche scarseggiano, il governo correrebbe il rischio di dilapidarle se cercasse di compiacere un po’ questo ed un po’ quello, con l’effetto di non stimolare e sviluppare sufficientemente i mercati.
Occorrerebbe, cioè, concentrare le scarse risorse disponibili sul incremento della capacità di spesa di milioni di famiglie a reddito fisso, di impiegati, operai, pensionati, che avendo risentito pesantemente della crisi hanno ridotti i loro consumi, anche dei beni di prima necessità.
Già, ma sarà capace questo governo patchwork di concentrare l’impegno su una sola scelta senza sperperare le scarse risorse tra IRPEF ed IRAP ?

domenica 9 marzo 2014

8 marzo … con le “mimose” di Renzi

Non so quanta voglia abbiano di celebrare la loro festa i milioni di donne che infoltiscono le file dei disoccupati, dei precari, dei cassintegrati, e perché no, degli indigenti, vittime della crisi, ma non solo.
Non so, neppure, come possano festeggiare le migliaia e migliaia di donne violate ed umiliate, ogni giorno, dalla brutalità degli uomini, dentro e fuori le mura domestiche.
Dal 1° gennaio ad oggi, 8 marzo, già 18 femminicidi !
Un vero dramma nazionale.
In questo Paese, ancora impregnato di un ottuso ed anacronistico maschilismo, sempre pronto alla discriminazione, se fossi una donna rifiuterei l’omaggio farisaico della mimosa.
È triste, ma non certo casuale, se il Parlamento italiano, proprio in questi giorni, dibatta perfino se riconoscere o no, alle donne, la cosiddetta “parità di genere”.    
C’è solo da sperare che alla fine prevalga il buon senso, anche se creano sconcerto le vergognose ed offensive parole pronunciate da Renato Brunetta.
Già, perché a detta di questo fallocrate da comica, con la “parità di genere” si premierebbero le donne “ubbidienti, o peggio”.
Ora, che proprio Renato Brunetta, servile fino al midollo, bolli come “ubbidienti” le donne, è una fregnaccia da premio oscar.
Ad assecondare, però, queste schermaglie senza senso sulla “parità di genere”, in realtà è una legge elettorale oscena, ed ambigue sono le modalità con cui essa è nata e viene gestita.
Scritta di suo pugno da Silvio Berlusconi, la legge elettorale è stata rifilata a Matteo Renzi, al Nazareno, perché la condividesse, senza però apportare nessuna variazione, e la imponesse alla direzione del PD.
Da diligente soldatino Matteo Renzi ha eseguiti gli ordini e così, dopo alcuni rinvii, la legge è arrivata alla Camera per una finta discussione, contingentata nei tempi e preclusa ad ogni modifica perché se no … “salta tutto”.
Tra le molte oscenità la legge ripropone, per la elezione dei parlamentari, le liste bloccate di candidati, nonostante la Consulta, nel bocciare il porcellum, abbia censurato il disconoscimento, agli elettori, del loro diritto di scegliere i propri rappresentanti.
In Italia, lo si sa, i capobastone vogliono essere liberi di scegliere servi e cortigiani di loro gradimento, lasciando ai cittadini solo l’onere di mantenere un Parlamento di nominati.
Siccome, però, nelle liste bloccate il posizionamento dei candidati ne determina la probabilità di essere eletti, più che a ragione da parte delle parlamentari, viene sollevato il problema della “parità di genere”.
La richiesta, legittima, è di alternare, nelle liste, i candidati dei due sessi, così da offrire sia ai candidati uomini che alle candidate donne le stesse opportunità.
In Parlamento, ad opporsi alla “parità di genere” sono ottusi maschilisti che, di fatto, vorrebbero negare il principio giuridico delle pari opportunità.
Probabilmente molti di loro, per bieco tornaconto politico, oggi però sono nelle piazze ad offrire mimose alle donne.
Comunque la domanda è: si disincaglierà questo impasse lunedì, quando il Parlamento tornerà a riunirsi ?
La risposta a questa domanda, in tutto il Paese la possiede una sola persona che con il suo pollice, verso od all’insù, deciderà il destino della “parità di genere”.
Napolitano ? Grasso ? Boldrini ? Renzi ? …. ?
Ma nemmeno per sogno !
In grado di sbloccare la situazione è solo lui, un individuo che, pur non ricoprendo alcun ruolo istituzionale, pur essendo un pregiudicato in attesa degli arresti domiciliari, è il solo che ancora può condizionare i lavori parlamentari.
È sconcertante, ma il Parlamento italiano pende dalle labbra di Silvio Berlusconi per sapere se approvare, o meno, la “parità di genere”.
Una situazione paradossale, una umiliazione per la democrazia parlamentare !
Purtroppo, non era difficile prevedere che, alla fine, il lavorio compiuto da Matteo Renzi per la riesumazione di Berlusconi, si rivelasse un vergognoso capolavoro di ambiguità, menzogne, ipocrisie, ciarlatanerie.
Il guaio vero, però, è che siamo solo agli inizi !!!