Ottenebrati
da turbe ideologiche, Camusso, Landini, Angeletti, e perfino l’ex
sottosegretario del governo Letta, Stefano Fassina, non devono aver tentato,
neppure per un istante, di mettersi nei panni di un giovane, in cerca di
lavoro, per domandarsi se per lui sia peggio vivere da precario o da disoccupato.
È
questa l’unica verosimile spiegazione per decifrare come mai siano scattati
all’unisono nello scagliarsi contro il decreto legge che riforma i contratti a
termine e l’apprendistato.
Al
grido “così aumenta la precarietà”
questi paladini del “posto fisso a vita”,
come tanti Don Chisciotte, si battono per difendere un passato che non c’è più
ma, soprattutto, che non potrà più ritornare.
Il
mondo del lavoro è già cambiato, ma soprattutto continuerà a trasformarsi, necessariamente,
per non perdere contatto con un sistema economico in cui le imprese potranno sopravvivere
solo se flessibili, competitive e innovatrici.
È
anacronistico, perciò, illudersi che possa ancora avere un futuro la cultura
del “posto fisso a vita”, garantito da
contratti che ne tutelano la stabilità a prescindere da capacità, professionalità, efficienza, impegno del lavoratore.
Perché
non riconoscere che, negli anni, il diffuso e continuo ricorso alla cassa
integrazione sia servito solo ad occultare il vero problema, cioè quello di un
mercato del lavoro reso atrofico dalla mancanza di flessibilità e mobilità ?
Come
non ravvisare nella cassa integrazione senza fine un modo per illudere il lavoratore con la
speranza, spesso ingiustificata, di conservare il suo posto fisso, disincentivandolo
così dal cercare un altro lavoro ?
È
altresì vero, però, che molti cassintegrati, in attesa di essere reinseriti in azienda, contribuiscono ad alimentare il mercato del lavoro in nero.
La
verità è che il lavoro non è solo un mezzo per ottenere una rimunerazione, ma è anche, e soprattutto, il modo per realizzare la propria dignità di persona
vitale, di attore protagonista del sistema economico.
Per
questo disoccupati e cassintegrati sono a rischio di crisi depressive.
Ecco
perché mi è ancora più difficile giustificare le critiche che, in questi giorni,
sono mosse da più parti alla possibilità che un individuo senza occupazione, giovane
o non più giovane, diventi protagonista del mondo del lavoro con un contratto a
termine che gli conferisca la dignità di lavoratore per uno, due o tre anni.
Un
contratto a termine che, di certo, non può prevedere le spropositate
tutele che i sindacati vorrebbero imporre.
Finalmente, invece, saranno solo le capacità, l’operosità e la serietà, dimostrate sul campo dal
lavoratore, che lo potranno tutelare.
D’altra
parte, vogliamo, o no, che la meritocrazia si affermi anche nei luoghi di
lavoro ?
Perché
continuare, perciò, a dare protezione a lavoratori incapaci, apatici, sfaccendati,
negando in questo modo la possibilità di un ricambio per i più meritevoli ?
Chissà,
quindi, che proprio le maggiori elasticità e durata, dei contratti a tempo
determinato, non siano la strada giusta per offrire, a molti disoccupati, la
possibilità di immettersi nel mondo del lavoro e di dimostrare le loro attitudini
e capacità.
Se
poi, con la parola precariato si vuole sottintendere, invece, che un lavoratore non
potrà più adagiarsi nello stesso posto di lavoro, per decenni, allora significa che, in modo subdolo, si rifiutano i concetti di flessibilità e mobilità, irrinunciabili per la sopravvivenza delle imprese private e pubbliche.
Concetto, quello della mobilità nel lavoro, che, ad esempio, incominciava a manifestarsi, in Italia, già agli inizi degli anni ’60, quando
facevo i primi passi in azienda.
Uno
dei direttori di allora (oggi lo definirei
manager) mi consigliò una regola elementare: “non meno di tre ma non più di cinque”.
Con
quelle semplici parole mi fece capire che mi sarebbero occorsi “non meno di tre” anni per acquisire le competenze ed esperienze indispensabili per impadronirmi a 360° di una mansione, ma che, dopo i cinque anni, fatalmente
avrei persi gli stimoli per infondere, nella stessa
mansione, nuova vigoria e creatività .
Già allora, dettato dal buonsenso, il suggerimento era di ricercare e
di non temere la mobilità nel lavoro.
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