Non c’è da sorprendersi se
ATAC, l’azienda che gestisce la mobilità autoferrotranviaria del Comune di
Roma, sia finita ancora una volta sotto i riflettori come crogiolo del
malaffare politico ed affaristico della Capitale.
Un bel daffare, davvero,
per la Magistratura romana, impegnata da tempo nello scoperchiare la turpitudine,
diffusa e variegata, che si è radicata negli anni in questa azienda pubblica,
con la connivenza dei politici che si sono susseguiti nei palazzi romani del
potere.
È stato definito “parentopoli”, a ragion veduta, lo
scandalo che ha visti otto manager di ATAC rinviati a giudizio, con
l’imputazione di abuso d’ufficio, per aver proceduto a 49 assunzione di mogli,
figli, cognati, amici, amici degli amici, tra cui anche una ex cubista, “omettendo di fare riferimento nel singolo
contratto di assunzione a specifiche e reali esigenze dell’azienda”.
Sfogliando le tredici
pagine redatte dal Pubblico Ministero, a chiusura delle indagini, è possibile
conoscere, per ognuno dei 49 beneficiati, qualifica, stipendio, irregolarità
nella procedura di assunzione ed alla fine … c’è solo da incazzarsi di brutto.
Ma ATAC è implicata anche nell’inchiesta per una tangente di 600 milioni di euro che Breda
Menarini avrebbe pagata per la vendita di 45 filobus, mai consegnati.
Inchiesta per la quale è
finito in carcere Riccardo Mancini, ex amministratore delegato di Ente EUR.
L’elenco dei misfatti che
hanno vista coinvolta, negli anni, ATAC potrebbe proseguire, se non che si
viene a sapere, in questi giorni, che la Magistratura romana avrebbe
scoperchiata un’altra vicenda inverosimile per la sua scelleratezza.
Ricorrendo ad un sistema di
doppia contabilità, alcuni manager ATAC avrebbero messa in circolazione una
serie clonata di ticket, per l’utilizzo dei mezzi pubblici, allo scopo di
creare fondi neri con i quali foraggiare politici, amministratori locali, partiti
e manager.
L’ammontare dei fondi neri
si aggirerebbe su 70 milioni di euro, un importo, cioè, frutto dei servizi
autoferrotranviari dell’azienda che, però, non figura nei bilanci ufficiali con
le intuibili conseguenze rovinose, economiche e finanziarie, sulla gestione.
È inaudito che a fronte di
un fatturato ATAC di circa 120 milioni di euro, servizi prestati dall’azienda
per un valore di 70 milioni siano stati destinati alla creazione di fondi neri.
Ipotizziamo, ora, che la
Magistratura scoprisse una nefandezza, di questo tipo e di questa rilevanza,
presso una impresa privata.
Cosa succederebbe ?
Sicuramente imprenditore e
manager finirebbero in gattabuia, i loro beni sarebbero posti sotto sequestro,
l’impresa collasserebbe sotto il peso di imposte, tasse e salate sanzioni, i
lavoratori si ritroverebbero sul lastrico.
Nel caso, invece, di un’azienda
pubblica, come è il caso di ATAC, la fitta rete di corruzioni e connivenze,
architettata dal sistema politico del malaffare, fa di tutto per ostacolare la
Giustizia.
Prima o poi, con pazienza e
determinazione, la Magistratura arriva,
però, a mettere le mani sui responsabili di questi misfatti.
Ecco perché sarebbe bello
che, nel nostro Paese, si allestissero uno o più campi di lavori forzati nei
quali relegare, a pane ed acqua, politici, amministratori locali, manager
pubblici, corrotti e corruttori, rei di essersi appropriati e di aver
dilapidato il denaro dei contribuenti.
Tra l’altro, sarebbero
campi di lavoro di pubblica utilità perché potrebbero servire per realizzare,
con costi minimi, le tante opere pubbliche di cui l’Italia ha bisogno.
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