C’era una volta … il
biciclo, il treno a vapore, la tramvia a cavalli, il padrone delle ferriere ed
anche … Susanna Camusso !
Potrebbe essere l’inizio
di un pamphlet sulla storia del sindacalismo italiano sennonché, ascoltando le voci
che giungono dal congresso CGIL, in corso in questi giorni a Rimini, si ha l’impressione
che molti sindacalisti siano convinti ancora oggi di viaggiare sulle tramvie a
cavalli e di confrontarsi con i padroni delle ferriere.
Riecheggiano, come verità
assolute, parole che rivelano una concezione del mondo del lavoro che non ha
nulla a che vedere con la realtà dei giorni nostri.
Concertazione, garanzie
per i lavoratori, diritti sindacali, contratti a tempo indeterminato, precariato, solo per
citarne alcuni, sono linguaggi che stridono con un quadro sociale in cui a
farla da padrone sono la disoccupazione, la cassa integrazione, la povertà dilagante, la chiusura
delle imprese, la perdita del potere di acquisto di salari e pensioni,
etc. etc.
Parole che vorrebbero riaffermare idee e modelli inconciliabili con i cambiamenti che, negli anni, hanno interessato l’economia ed il mondo del lavoro.
Un sindacato incapace
di rendersi conto che, per effetto di una disoccupazione galoppante e di una cassa
integrazione sempre più a perdere, finirà inevitabilmente per rimanere avvizzito
dalla diminuzione, giorno dopo giorno, del numero di lavoratori attivi, dei
quali tutelare privilegi e diritti.
Quello che più disturba,
in questo assurdo riecheggiare di vecchi slogan, è la totale assenza, da parte dei
massimi esponenti sindacali, di un seppur fugace cenno di autocritica per gli
errori commessi e per la responsabilità di aver create le condizioni che hanno
fatto precipitare il mondo del lavoro nella crisi attuale.
Il sindacato
italiano non può voltare la faccia dall’altra parte e fingere di non vedere le
proprie colpe per aver ingessato il mondo del lavoro e, con esso, l’economia
italiana.
E poco importa se a consentirlo
sia stata la miopia di una classe imprenditoriale che, per convenienze di breve
termine, ha ceduto alle pretese sindacali.
Solo con il passare
del tempo gli imprenditori si sono accorti di aver accettate e sottoscritte condizioni
che hanno resi i rapporti di lavoro più indissolubili di un matrimonio e
più dannosi per la competitività delle loro imprese.
A mo’ di esempio
prendiamo due elementi costitutivi dello Statuto dei Lavoratori, peraltro
datato ormai 44 anni.
È sufficiente aver
vissuto in azienda per essersi resi conto come i celebrati “diritti dei
lavoratori” siano serviti al sindacato esclusivamente per proteggere, di fatto,
dipendenti incapaci, improduttivi, assenteisti.
Il lavoratore responsabile,
capace, attivo, non aveva bisogno, infatti, di ricorrere al sindacato od ai
pretori del lavoro per far valere i suoi diritti, semplicemente perché erano il
suo impegno e la sua serietà a farlo
apprezzare e ad assicurargli la stabilità del posto di lavoro.
Anche il proliferare
dei “permessi sindacali” è stato un effetto dello Statuto dei Lavoratori, in
applicazione del quale è accordato ai lavoratori, pubblici e privati, dediti ad attività sindacali, il diritto di percepire regolarmente la retribuzione pur non
partecipando ai processi produttivi delle loro aziende.
Quella dei “permessi
sindacali”, perciò, è una spesa improduttiva che incide sui costi
delle imprese.
Dal 1970 in poi i
sindacati hanno sempre cercato, e spesso ottenuto, di incrementare il numero
delle ore riconosciute per “permessi sindacali”.
Ho avuto modo di
conoscere, in questi anni, impiegati, operai, agenti della polizia di Stato, insegnanti
che, godendo di “permessi sindacali”, si sono fatti vedere poco o nulla sul posto
di lavoro, mentre i colleghi si sobbarcavano l’onere di fare anche il loro
lavoro.
È inquietante, perciò, dover constatare oggi che, di
fronte alla crisi che travaglia il mondo del lavoro e coinvolge milioni di
disoccupati e cassintegrati, dai microfoni del congresso CGIL giunga un solo
arrogante messaggio “noi siamo la democrazia”.
Un sindacato,
quindi, sul viale del tramonto, a meno che non trovi la forza ed il coraggio di
scendere dalla tramvia a cavalli e di adeguarsi alla nuova realtà.
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