giovedì 8 maggio 2014

Susanna Camusso sulla tramvia a cavalli

C’era una volta … il biciclo, il treno a vapore, la tramvia a cavalli, il padrone delle ferriere ed anche … Susanna Camusso !
Potrebbe essere l’inizio di un pamphlet sulla storia del sindacalismo italiano sennonché, ascoltando le voci che giungono dal congresso CGIL, in corso in questi giorni a Rimini, si ha l’impressione che molti sindacalisti siano convinti ancora oggi di viaggiare sulle tramvie a cavalli e di confrontarsi con i padroni delle ferriere.
Riecheggiano, come verità assolute, parole che rivelano una concezione del mondo del lavoro che non ha nulla a che vedere con la realtà dei giorni nostri.
Concertazione, garanzie per i lavoratori, diritti sindacali, contratti a tempo indeterminato, precariato, solo per citarne alcuni, sono linguaggi che stridono con un quadro sociale in cui a farla da padrone sono la disoccupazione, la cassa integrazione, la povertà dilagante, la chiusura delle imprese, la perdita del potere di acquisto di salari e pensioni, etc. etc.
Parole che vorrebbero riaffermare idee e modelli inconciliabili con i cambiamenti che, negli anni, hanno interessato l’economia ed il mondo del lavoro.
Un sindacato incapace di rendersi conto che, per effetto di una disoccupazione galoppante e di una cassa integrazione sempre più a perdere, finirà inevitabilmente per rimanere avvizzito dalla diminuzione, giorno dopo giorno, del numero di lavoratori attivi, dei quali tutelare privilegi e diritti.
Quello che più disturba, in questo assurdo riecheggiare di vecchi slogan, è la totale assenza, da parte dei massimi esponenti sindacali, di un seppur fugace cenno di autocritica per gli errori commessi e per la responsabilità di aver create le condizioni che hanno fatto precipitare il mondo del lavoro nella crisi attuale.
Il sindacato italiano non può voltare la faccia dall’altra parte e fingere di non vedere le proprie colpe per aver ingessato il mondo del lavoro e, con esso, l’economia italiana.
E poco importa se a consentirlo sia stata la miopia di una classe imprenditoriale che, per convenienze di breve termine, ha ceduto alle pretese sindacali.
Solo con il passare del tempo gli imprenditori si sono accorti di aver accettate e sottoscritte condizioni che hanno resi i rapporti di lavoro più indissolubili di un matrimonio e più dannosi per la competitività delle loro imprese.
A mo’ di esempio prendiamo due elementi costitutivi dello Statuto dei Lavoratori, peraltro datato ormai 44 anni.
È sufficiente aver vissuto in azienda per essersi resi conto come i celebrati “diritti dei lavoratori” siano serviti al sindacato esclusivamente per proteggere, di fatto, dipendenti incapaci, improduttivi, assenteisti.
Il lavoratore responsabile, capace, attivo, non aveva bisogno, infatti, di ricorrere al sindacato od ai pretori del lavoro per far valere i suoi diritti, semplicemente perché erano il suo impegno e la  sua serietà a farlo apprezzare e ad assicurargli la stabilità del posto di lavoro.
Anche il proliferare dei “permessi sindacali” è stato un effetto dello Statuto dei Lavoratori, in applicazione del quale è accordato ai lavoratori, pubblici e privati, dediti ad attività sindacali, il diritto di percepire regolarmente la retribuzione pur non partecipando ai processi produttivi delle loro aziende.
Quella dei “permessi sindacali”, perciò, è una spesa improduttiva che incide sui costi delle imprese.
Dal 1970 in poi i sindacati hanno sempre cercato, e spesso ottenuto, di incrementare il numero delle ore riconosciute per “permessi sindacali”.
Ho avuto modo di conoscere, in questi anni, impiegati, operai, agenti della polizia di Stato, insegnanti che, godendo di “permessi sindacali”, si sono fatti vedere poco o nulla sul posto di lavoro, mentre i colleghi si sobbarcavano l’onere di fare anche il loro lavoro.
È inquietante, perciò, dover constatare oggi che, di fronte alla crisi che travaglia il mondo del lavoro e coinvolge milioni di disoccupati e cassintegrati, dai microfoni del congresso CGIL giunga un solo arrogante messaggio “noi siamo la democrazia”.
Un sindacato, quindi, sul viale del tramonto, a meno che non trovi la forza ed il coraggio di scendere dalla tramvia a cavalli e di adeguarsi alla nuova realtà.

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