Tra
le ragioni per le quali non riuscirei ad essere un politico di professione ci
sarebbe, senza dubbio, l’intimo rifiuto ad omologarmi alle discipline di
partito, specialmente nei casi in cui non ne condividessi idee e finalità.
Anche
perché sono così ingenuo da credere che, quando i Padri costituenti lavorarono
alla stesura dell’art. 67 della Carta costituzionale, immaginavano parlamentari
capaci di pensare con le loro teste, liberi da ogni “vincolo di mandato”.
Purtroppo,
invece, dobbiamo prendere atto che l’art. 67 della Costituzione è trasgredito,
ogni giorno, da deputati e senatori.
In
effetti, le scelte politiche le fanno quei pochi, seduti nelle segreterie dei
partiti, che le impongono poi come dogmi a dei fantocci, i parlamentari, che sembrano rinunciare alle loro capacità di intendere e di volere.
Quando poi un parlamentare intendesse recuperare la dignità di essere pensante,
scrollandosi di dosso la giubba da fantoccio, verrebbe subito accusato di tradimento.
È
sempre stato così, sia nella prima sia nella seconda repubblica, con
l’aggravante, oggi, che i cambi di casacca avvengono più per corruzione o
meschini tornaconti personali, che non per sussulti di dignità.
È
indubbio, inoltre, che l’esistenza di partiti personali, al servizio di despoti
convinti della loro infallibilità, favorisce la presenza, sulla scena politica,
di sudditi e lacchè, che hanno in comune la inconsulta venerazione per il falso
principe.
Tutto
ciò degrada ancor più lo scenario della politica italiana.
Anche
nei partiti granitici, però, dove c’è il padre padrone che domina e vigila, può
accadere che, sotto una apparente devozione al capo, covino avvisaglie di
insofferenza.
È
quello che, ad esempio, sta avvenendo nel PdL, da quando il declino, oramai ineluttabile
di Berlusconi, sembra aver fornito lo spunto per un “rompete le righe”.
A
pestare i piedi in segno d’impazienza, ha iniziato un nutrito gruppo di
deputati e senatori, capitanato da Alfano, che, non tollerando più l’arroganza astiosa
ed insolente dei cosiddetti falchi, ha costretto Berlusconi a sputtanarsi con il
clamoroso voltafaccia sul voto di fiducia al governo Letta.
È
innegabile che sia in atto una contesa intestina per arraffare, una volta archiviato
Berlusconi, l’eredità del consenso elettorale di cui ha goduto fino ad oggi il
PdL.
Un’eredità
che alla fine, però, potrebbe risultare deludente dopo l’uscita dalla scena
politica di Berlusconi che, in questi venti anni, è stato un autentico specchietto
per gli allocchi.
Ma,
a dirla lunga sulla perdita di leadership da parte di Berlusconi sono stati i botti
del “fuoco amico” che, venerdì scorso, si sono uditi durante la seduta pubblica
della Giunta del Senato per le elezioni.
Inimmaginabile,
infatti, solo qualche settimana fa, che un pidiellino osasse contrapporsi a
Berlusconi.
Ebbene,
venerdì è successo.
Ulisse
Di Girolamo, già senatore PdL nella passata legislatura e primo degli esclusi, a febbraio, per colpa di Berlusconi che ha scelto per sé il seggio
molisano, si è fatto rappresentare in Giunta dal suo legale.
L’avvocato
Salvatore Di Pardo, dopo aver smontate, una dopo l’altra, le argomentazioni della
memoria difensiva di Berlusconi, ha conclusa la sua arringa sostenendo che
Berlusconi debba decadere da senatore perché “indegno di sedere in Senato”.
È chiaro
che, in questi giorni, affermare che il futuro politico di Berlusconi stia andando a
puttane, può avere un significato solamente figurato.
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