Che Sergio Marchionne, per il suo modo di porsi, non sia
un personaggio che susciti simpatie planetarie è un dato di fatto.
Che ogniqualvolta, però, apra bocca si agitino immediatamente contro di lui reazioni ideologiche di ogni tipo, senza neppure tentare di leggere oltre le parole, spesso spiacevoli, che proferisce, è ancora un dato di fatto.
Marchionne è un manager che, come dovrebbe essere dovere di ogni manager, cura gli interessi dell'impresa di cui è responsabile, affrancandosi, se e quando necessario, dalle aspettative di questo o quel paese.
Certo, mi si potrà obiettare, ma Marchionne è a capo della FIAT, una azienda che negli anni ha succhiato dalle mammelle dello Stato italiano ogni possibile beneficio.
Così come è altrettanto vero che, ancora adesso, la FIAT, e per essa Marchionne, continui ad accollare allo Stato italiano, con la cassa integrazione, le conseguenze dei suoi marchiani errori di politica industriale.
E' tutto vero ! Ma è altrettanto vero che politici e sindacalisti si agitano solo perché FIAT è, per l'opinione pubblica, la più importante industria manifatturiera del nostro Paese.
Come mai, infatti, politici e sindacalisti non hanno sollevato polveroni quando, nell'indifferenza generale, centinaia di imprese italiane hanno trasferiti i loro impianti produttivi fuori dai confini nazionali ?
In verità Marchionne, con la crudezza che lo caratterizza, ha affermato, a chiare lettere, che è "impossibile fare industria in Italia", nulla in più né di diverso da quello che devono aver pensato gli imprenditori che hanno traslocate all'estero le loro produzioni.
Qualcuno, forse, se la sente di disconoscere che in Italia le imprese debbano fare i conti, ogni giorno, con una pressione fiscale insopportabile, con una burocrazia assurda, con una corruzione dilagante, con una politica incapace, con un sindacalismo arcaico, con una giustizia lumacona ?
Quelle di Marchionne, quindi, non sono state parole in libertà, pronunciate in una afosa giornata di luglio, ma l'ennesimo messaggio, forte e chiaro, inviato al governo, alla politica ed ai sindacati.
Un messaggio altrettanto chiaro era stata l'uscita, dal 1° gennaio 2012, di FIAT dal carrozzone confindustriale.
Una scelta che aveva fatto scalpore non solo per l'influenza della FIAT in Confindustria, di cui peraltro lo stesso avvocato Gianni Agnelli era stato Presidente, ma per il dibattito accesosi sui motivi della decisione.
Penso, ad esempio, che FIAT e Marchionne abbiano scelto di lasciare Confindustria perché non più intenzionati a farsi ingabbiare dall'assurdità dei CCNL, i contratti collettivi nazionali di lavoro, retaggio di un arcaizzante modo di regolare i rapporti tra imprese e lavoratori.
Un modo arcaico di vivere e gestire le relazioni sindacali, perché nell'attuale contesto economico-sociale ogni impresa deve poter negoziare con i propri collaboratori i termini di un accordo che tenga conto della dimensione aziendale, dello stato di salute dell'impresa, delle professionalità impiegate, della tipologia di prodotto, delle condizioni di lavoro, dei requisiti di competitività, e via dicendo.
E' paranoico, oggi, vagheggiare che un CCNL, a livello nazionale, possa corrispondere alle esigenze reali di imprese diverse tra loro, non solo perché impiegano da poche decine fino a migliaia e migliaia di addetti, ma anche perché ingaggiate in attività e mercati fortemente diversificati.
Per questo Marchionne ha intrapresa la strada degli accordi aziendali a Mirafiori come a Pomigliano, sottoponendoli ai referendum dei lavoratori.
Ma l'Italia è un paese paradossale, nel quale anche colui che non abbia sottoscritto l'accordo pretende, con l'avallo della Magistratura, di essere rappresentato sul posto di lavoro.
E' un po' come se un giocatore di calcio, dopo aver rifiutato di firmare il contratto con una società calcistica, esigesse di scendere in campo per giocare le partite.
Siccome, però, l'Italia è anche questa, forse quel birichino di Marchionne aveva qualche buona ragione per dire "impossibile fare industria in Italia" !
Che ogniqualvolta, però, apra bocca si agitino immediatamente contro di lui reazioni ideologiche di ogni tipo, senza neppure tentare di leggere oltre le parole, spesso spiacevoli, che proferisce, è ancora un dato di fatto.
Marchionne è un manager che, come dovrebbe essere dovere di ogni manager, cura gli interessi dell'impresa di cui è responsabile, affrancandosi, se e quando necessario, dalle aspettative di questo o quel paese.
Certo, mi si potrà obiettare, ma Marchionne è a capo della FIAT, una azienda che negli anni ha succhiato dalle mammelle dello Stato italiano ogni possibile beneficio.
Così come è altrettanto vero che, ancora adesso, la FIAT, e per essa Marchionne, continui ad accollare allo Stato italiano, con la cassa integrazione, le conseguenze dei suoi marchiani errori di politica industriale.
E' tutto vero ! Ma è altrettanto vero che politici e sindacalisti si agitano solo perché FIAT è, per l'opinione pubblica, la più importante industria manifatturiera del nostro Paese.
Come mai, infatti, politici e sindacalisti non hanno sollevato polveroni quando, nell'indifferenza generale, centinaia di imprese italiane hanno trasferiti i loro impianti produttivi fuori dai confini nazionali ?
In verità Marchionne, con la crudezza che lo caratterizza, ha affermato, a chiare lettere, che è "impossibile fare industria in Italia", nulla in più né di diverso da quello che devono aver pensato gli imprenditori che hanno traslocate all'estero le loro produzioni.
Qualcuno, forse, se la sente di disconoscere che in Italia le imprese debbano fare i conti, ogni giorno, con una pressione fiscale insopportabile, con una burocrazia assurda, con una corruzione dilagante, con una politica incapace, con un sindacalismo arcaico, con una giustizia lumacona ?
Quelle di Marchionne, quindi, non sono state parole in libertà, pronunciate in una afosa giornata di luglio, ma l'ennesimo messaggio, forte e chiaro, inviato al governo, alla politica ed ai sindacati.
Un messaggio altrettanto chiaro era stata l'uscita, dal 1° gennaio 2012, di FIAT dal carrozzone confindustriale.
Una scelta che aveva fatto scalpore non solo per l'influenza della FIAT in Confindustria, di cui peraltro lo stesso avvocato Gianni Agnelli era stato Presidente, ma per il dibattito accesosi sui motivi della decisione.
Penso, ad esempio, che FIAT e Marchionne abbiano scelto di lasciare Confindustria perché non più intenzionati a farsi ingabbiare dall'assurdità dei CCNL, i contratti collettivi nazionali di lavoro, retaggio di un arcaizzante modo di regolare i rapporti tra imprese e lavoratori.
Un modo arcaico di vivere e gestire le relazioni sindacali, perché nell'attuale contesto economico-sociale ogni impresa deve poter negoziare con i propri collaboratori i termini di un accordo che tenga conto della dimensione aziendale, dello stato di salute dell'impresa, delle professionalità impiegate, della tipologia di prodotto, delle condizioni di lavoro, dei requisiti di competitività, e via dicendo.
E' paranoico, oggi, vagheggiare che un CCNL, a livello nazionale, possa corrispondere alle esigenze reali di imprese diverse tra loro, non solo perché impiegano da poche decine fino a migliaia e migliaia di addetti, ma anche perché ingaggiate in attività e mercati fortemente diversificati.
Per questo Marchionne ha intrapresa la strada degli accordi aziendali a Mirafiori come a Pomigliano, sottoponendoli ai referendum dei lavoratori.
Ma l'Italia è un paese paradossale, nel quale anche colui che non abbia sottoscritto l'accordo pretende, con l'avallo della Magistratura, di essere rappresentato sul posto di lavoro.
E' un po' come se un giocatore di calcio, dopo aver rifiutato di firmare il contratto con una società calcistica, esigesse di scendere in campo per giocare le partite.
Siccome, però, l'Italia è anche questa, forse quel birichino di Marchionne aveva qualche buona ragione per dire "impossibile fare industria in Italia" !
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