Febbraio 1984, nel
corso di un animato consiglio di amministrazione di un’azienda produttrice di
componentistica elettronica, fu decisa la chiusura di uno stabilimento produttivo,
in provincia di Pavia, al fine di trasferire impianti e produzioni a Milano.
L’unico voto contrario fu
quello dell’amministratore delegato che chiese ed ottenne, tuttavia, il rinvio
di un mese della decisione definitiva per poter prima esplorare eventuali altre
soluzioni.
L’unità produttiva pavese occupava
solo 54 operatrici, tutte persone del posto con buona e pluriennale esperienza.
L’unità era localizzata,
però, in una zona che non offriva alternative occupazionali, per cui le lettere
di licenziamento avrebbero inciso su un tessuto sociale difficile, provocando
tensioni in quel paesino di circa 1.000 abitanti.
L’intento, dunque, doveva
essere salvare sì i 54 posti di lavoro, ma ottenere anche la significativa
riduzione di costo, per unità di prodotto, richiesta dal consiglio di
amministrazione.
Entrambi gli obiettivi
furono conseguiti con successo, grazie ad un accordo siglato da un sindacalista
locale, dell’allora FLM, contro il parere del sindacato provinciale e
regionale.
L’accordo, ispirato al
principio del “lavorare meno lavorare tutti”, tra le altre pattuizioni, prevedeva il ricorso al part time per la
prima volta in Italia .
Infatti, solo dopo dieci
mesi sarebbe entrata in vigore la legge 863, del 19 dicembre 1984, che
introduceva e disciplinava il lavoro part
time.
Creò sconcerto constatare che
ad opporre resistenze e critiche all’accordo non furono le lavoratrici, che anzi lo condivisero senza
un’ora di sciopero e senza occupazione della fabbrica, bensì le associazioni
industriali ed i sindacati, ostinatamente arroccati sui loro tabù ideologici e
contrapposti.
Alla fine, comunque, l’accordo
divenne operativo, le 54 lavoratrici conservarono il loro posto di lavoro e l’azienda
ottenne benefici economici superiori alle attese.
Dopo trenta anni il ricordo
di questa esperienza è riaffiorato nel venire a conoscenza di quanto accade a
Marghera, in Fincantieri, ed a Sedico, Belluno, in Joint & Welding.
A Marghera, dopo sette mesi
ininterrotti di cassa integrazione, Fincantieri ha ottenuta la commessa di una
nave che, però, dovrà essere ultimata e consegnata inderogabilmente entro il
2015 alla società armatrice finlandese, Viking Line.
Poiché il mancato rispetto dei
tempi di consegna, oltre alle penali, comporterebbe il rischio di perdere una successiva
commessa di altre due navi, Fincantieri ha dovuto richiedere ai sindacati di
rinegoziare gli orari di lavoro, ad esempio per posticipare a fine turno
la pausa mensa e per ricorrere, nei momenti di picco, a turni di lavoro ordinario
anche nelle giornate di sabato.
I tre sindacati confederali,
rifiutata la proposta aziendale, hanno proclamato lo stato di agitazione, entrando
così in rotta di collisione con i lavoratori che, temendo il ritorno in cassa
integrazione, hanno formalizzata in un documento la loro volontà di aderire
alle richieste dell’azienda.
Poiché da anni il settore
della cantieristica navale, non solo europea, attraversa uno stato di grave sofferenza,
appare anacronistico e stolto che i sindacati si trincerino dietro preclusioni
ideologiche, correndo il rischio di sottrarre opportunità occupazionali a quei lavoratori
che hanno già pagati, a caro prezzo, gli effetti della crisi.
È probabile, perciò, che,
da questo braccio di ferro i sindacati non solo ne escano perdenti, ma finiscano
per minare la loro rappresentatività ed autorevolezza nel caso di future negoziazioni.
Presso la Joint &
Welding, invece, la spaccatura tra lavoratori e sindacato è già un dato di
fatto.
I dipendenti della Joint
& Welding, infatti, per evitare che la difficile situazione economica dell’azienda
si traducesse per loro in cassa integrazione, prima, ed in eventuale perdita
del posto di lavoro, poi, hanno deciso, contro il parere del sindacato, di accettare, a parità di salario, il
prolungamento di mezz’ora del loro orario di lavoro.
È sconsolante dover prendere atto
che, dopo trent’anni, il tema del lavoro rimane ancora terreno impregnato di
ideologie, sospetti e rancori.
La
strada della modernizzazione e della innovazione, quindi, si presenta ancora lunga e disseminata di
ostacoli, sempre ammesso che sia tuttora possibile percorrerla.
Nessun commento:
Posta un commento